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2016/03/28

2016 03, "Better Call Saul"

Se è vero che un capolavoro si riconosce dai dettagli osservate questi snapshot da "Better Call Saul"  e sappiatemi dire...







2010/10/20

Lasciami Entrare


Curioso come lo stesso tema, quello dell'amore impossibile tra un essere umano, e dunque mortale, ed un pressochè immortale vampiro, possa essere sviluppato su direzioni tanto diverse e con risultati tanto divergenti.

Chi vi scrive si è già dilungato su "Twilight" (vedi http://lobetablog.blogspot.com/2010/02/antropologia-di-twilight.html); molto più interessante, perchè più rude, contundente e certamente meno edulcorato, per i temi etici sollevati, "Lasciami entrare" (titolo originale "Låt den rätte komma in", 2008) del regista svedese Tomas Alfredson.

In questo caso quel che è analizzato, e a fondo, è il tema del "male" contrapposto a quello della "malvagità".

La bambina Eli, che ha "da molto tempo dodici anni", necessita di bere sangue umano per sopravvivere.

Nella periferia di Stoccolma, tra parchi deserti e sommersi di neve, resi irreali da una luce che -naturale o artificiale- illumina le cose in un alone di inquieta solitudine, incontra Oskar, un suo coetaneo dalla natura schiva e contemplativa.

Tra i due si sviluppa una relazione che, se da un lato aiuta lui a prendere forza e a ribellarsi alle sopraffazioni di compagni di scuola bulli e, come vedremo, potenzialmente assassini, dall'altro porta Oskar a salvare Eli, che vive incaspulata nel suo limbo notturno, lunare, che non teme il freddo, che non teme nulla se non la luce del sole. E a sua volta, questa relazione curiosa e quasi incomprensibile, permette a Eli di salvare Oskar.

Eppure la visione del "male" (che genera dolore e morte ma col solo fine di consentire la sopravvivenza) è perfino accettabile, concepibile, al pari dei terremoti, delle inondazioni, delle malattie; in altre parole è un "male" perfino sopportabile.

Mentre è proprio la "malvagità" ad essere descritta come prodotto tipico, specifico ed odioso, della razza umana. Tale "malvagità" viene messa a nudo, orrenda, con tutto il suo carico di sadismo, di sopraffazione, di violenza.

E tutto questo viene narrato raccontando un'umanità isolata, alienata, sperduta, senza rapporti autentici (non è un caso che sia l'alfabeto Morse, con la sua sequenza di punti e linee, a sostituirsi alla parola, al logos).

Un'incomunicabilità suburbana che sarebbe piaciuta a Bergman e che non chiude del tutto a una speranza, pur se flebilissima, di farcela, in questa vita difficile.

2010/02/08

antropologia di "Twilight"

L'amore tra un essere immortale ed uno mortale è tema fondante della mitologia classica. Per gli antichi greci i destini degli uomini, mortali per eccellenza, erano continuamente intersecati con quelli di dèi annoiati e fastidiosi, gelosi e furenti, rancorosi e solo raramente generosi.

La vita degli umani era dunque letta come una sequenza di prove, trappole più o meno diabolicamente architettate che, se superate, consentivano agli sventurati di tirare ancora un po' avanti, ossia di protrarre nel tempo la loro condizione imperfetta.

Altrimenti l'ira vendicatrice di Zeus (ossia il Dio) o di qualcuno della sua sconfinata corte scatenava vendette su vendette che potevano abbattersi non solo sullo sfortunato ma anche sui propri figli (le colpe dei padri ricadono, in tutta la Tragedia greca, sempre su di loro). La 'pietas' era, allora come ora, sentimento piuttosto raro.

Ma la distinzione umano/divino non è del tutto netta. Ecco allora che Achille nasce divino, 'immerso' letteralmente di immortalità nello Stige, tranne che nel punto in cui sarà penetrato da freccia (o spada a secondo delle versioni). Del resto l'eroismo di Achille verrebbe meno se egli fosse stato del tutto immortale. Che eroe-guerriero è colui che mai può perdere la propria vita in battaglia?

Ma anche Enea, dall'altro campo di Ilio assediata, è figlio del mortale Anchise e di Afrodite. Del resto il sommo Virgilio, raccontandone le gesta, voleva celebrare una fondazione mitica e divina dell'Urbe (Enea è progenitore di Roma) ma pure voleva dimostrare che la città fu costruita col sudore, con le lacrime, col sangue.

Ecco di nuovo il tema: del mortale e dell'immortale intrecciati tra loro come gli elicoidi del DNA. Del resto un Dio piuttosto prepotente ed imperscrutabile è quello che si accanisce contro Giobbe. Un Dio veterotestamentario, ben diverso da quello molto più empatico ed intimo della condizione umana che dopo di Lui verrà: Cristo.

Tra l'altro la natura divina del concepimento di Gesù avviene, diversamente che nella mitologia greca, senza ratti, violenze, stupri. E' l'Angelo che propone alla Vergine, in una delle pagine più dense di poesia, di accogliere nel proprio grembo "il figlio dell'Uomo".

Ma è la psicanalisi che forse meglio aiuta a comprendere il tema dell'immortale che, per poter vivere una 'vera' vita, quella delle scelte, dei dubbi, dei sentieri perduti e ritrovati, dovrà abbandonare, giocoforza, la sua condizione divina. La scelta consapevole di vivere è, dunque, anche la scelta di invecchiare e morire.

In fondo è successo a tutti, da piccoli di crederci: astronauti, pompieri, poliziotti, oppure regine, stelle del cinema. In effetti da piccoli, potenzialmente, possiamo essere tutto. E tutti. Ma è la nostra mortalità che ci obbliga a scegliere, tra l'infinito giardino dei sentieri che si biforcano, la nostra strada, quella che è solo per noi, la nostra vita.

Ogni tentativo di 'rinviare' le nostre scelte mortali è sintomo di alienazione. Stiamo indossando, in quel caso sciagurato e patologico, i panni di un altro: "alius", appunto. Cioè siamo tutto tranne che noi stessi.

Ed invece la saggezza degli antichi a questo ci esortava: ad essere noi stessi, nè più nè meno: ad affrontare le prove della vita, a camminare da soli nei boschi, a subìre i riti di passaggio. Partorirai con dolore. Guadagnerai il pane col sudore della fronte. A volte riderai, sorriderai, a volte piangerai, ma sarai, in una sola parola: vivo.

Ecco perchè mi auguro che la saga tanto amata rechi questo messaggio, dia le giuste indicazioni che portino dalla non-vita alla vita, dal non-essere all'essere, dal tempo infinito a quello, brevissimo, dell'esistenza. ("la vita è un fiato" dice Giobbe in un lungo sospiro).

E dunque spero che sia il bel pipistrello a scendere nell'agone della vita, e non la sofferta fanciulla a salire in un empireo senza giorno e senza notte.

E ad entrambi, finalmente "umani troppo umani", augurerei una lunga, serena vita insieme.

2006/04/04

Ogni cosa è illuminata - una recensione


Jonathan Safran Foer è un personaggio non del tutto reale, è più che altro uno sguardo, un ammiccamento sul mondo, i grandi occhi resi ancor più grandi dalle lenti di improbabili occhiali. E’ un collezionista di ricordi, tanti piccoli oggetti finiscono nelle bustine dei reperti (come nella serie “CSI Miami”), appesi a una parete sotto la foto del loro legittimo proprietario.
Biglietti d’autobus usati, sassolini, fiori essiccati, perfino una dentiera…

Alla morte della nonna ci sono nuovi pezzi per la collezione: una catenina d’oro con la stella di David, un grillo congelato in una goccia d’ambra, una foto scattata nella lontana Ucraina, col nonno ed una donna, Augustine, che nella foto mostra il grillo appeso a mo’ di monile.

“Torna da lei, trovala, riportale questo, le appartiene” sono le ultime volontà dell’anziana donna. E Jonathan parte, dagli USA, destinazione Odessa, quella della corazzata Potemkin, la lunga scalinata è ancora lì, con qualche McDonald’s in più.

C’è persino un’agenzia, la “Heritage Odessa Tours”, piuttosto scalcinata che offre servizio di accompagnamento in auto, traduzione e ricerca delle radici per ebrei americani in crisi di identità.

E da qui parte il film, racconto picaresco alla ricerca di un luogo che non esiste più, dove i ricordi sono, nel contempo, dolcissimi e dolorosi, l’arancione dei campi di girasole non riesce a illuminare il lato oscuro dei pogrom e dei rastrellamenti delle SS.

Su una traballante Trabant accompagnano Jonathan il giovane Alex, campione di breakdance, col mito degli USA e degli afroamericani di successo, il vecchio nonno –autista e da un po’ non vedente per scelta- , e il cane guida Sammy Davis Jr. Jr. (due volte junior per distinguerlo dal cantante negro -pardon, afroamericano- ebreo). Il viaggio verso una località, ormai cancellata dalle cartine geografiche e dalla storia, può evocare una catena infinita di ricordi, perché il passato torna sempre a galla, nella sua miseria e nella sua grandezza, quasi a dimostrare il detto evangelico “… la verità vi farà liberi…” (Gio 8,32).

E poco a poco il tono del film diviene più drammatico, gli incontri via via più risolutivi; le battute e le gag si fanno più amare, i colori stessi della pellicola si avvolgono in ombre più introverse, in presagi.

Non vi racconto il finale, un po’ cechoviano, un po’ shakespeariano. Vi dico solo che ciascun personaggio, alla termine della storia, è più consapevolmente se stesso, condizione indispensabile per poter almeno tentare di rapportarsi all’altro.

“Ogni cosa è illuminata “ (2005), regia di Liev Schreiber, da un racconto di Jonathan Safran Foer, con Elijah Wood.

foto "Self-portrait with an orange", Marco Lorenzo Faustini, 2004