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2020/05/25
2020 05 25 Neri Pozza, Tiziano
Questa di contemplare il cielo era una delle prove dell'anima dalla quale usciva confuso; un modo
cristiano per ritrovare la misura giusta della propria mente superba di figure.
S'accorgeva del silenzio nel quale era immerso, del fruscio delle foglie quasi impercettibile.
Sembrava il gorgoglio dell'acqua che corre fra i sassi della valle.
Arrivava improvviso dalla parrocchia il suono rotondo della campana, quattro o cinque tocchi. Allora si segnava, tornava al forno e apriva il fuoco con la forca di ferro perché si consumassero gli ultimi sarmenti e spingeva la brace da una parte.
Spazzato il piano infocato tornava alla finestra a vedere le cime nella prima luce, e d'istinto prendeva nota del timbro del cielo turchino e del rosato sui roccioni.
Neri Pozza, "Tiziano", 1976
2014/02/21
San Marco, il Robusti ed io...
Ve lo giuro, sull'onore mio e sul Santo Vangelo di Marco, che le cose andarono come di seguito narrate.
Correva infatti l'anno del Signore 154* ed io ero lì, nella cittadina di ***, piccola ed amena località assai d'appresso ad Alessandria, in Terra d'Egitto, in missione per conto di Sua Serenità Doge Pietro Lando (che Iddio lo abbia in gloria).
Non mi dilungo, dato che un vincolo di segretezza e di riservatezza mi lega, sui fini ultimi dell'arduo e periglioso compito assegnatomi. Di certo è che il clima, in quei luoghi ed in quei giorni, era assai teso. E per questa ed altre ragioni affidavo spesso le mie preghiere alla cura e alla custodia del venerato Santo Marco, che da sempre protegge la Nostra Serenissima Repubblica sotto lo stemma del Leone alato.
Ero dunque lì, in attesa che un messo mi recasse nuove di quel complesso ed intricato negozio che dalle amate sponde dell'Adriatico fino a quelle terre per me tanto straniere mi aveva sospinto.
E per ingannare l'attesa passeggiavo spesso tra quei vicoli affollati di mercanti e profumati delle spezie più esotiche, perdendomi fra palmeti e maestose architetture. Quand'ecco che, ad una svolta del mio vagare, odo un clamore di grida altissime. Il richiamo della curiosità prese il sopravvento perfino su quel dovere imperativo di mantenermi, il più possibile, nell'ombra. Cosa accadeva, dunque?
Uno schiavo, illuminato dalla fede in Cristo, era stato scoperto a venerare le reliquie di un Santo. La cosa non era affatto piaciuta al di lui Padrone che, appreso il fatto, aveva ordinato che lo sventurato avesse gli arti trafitti da un acuminato palo e da un martello.
E mentre i suoi sgherri s'apprestavano ad infliggergli una tanto crudele condanna il poveretto aveva rivolto una preghiera, l'ultima forse, della sua vita mortale, al Santo Nostro Venerato.
E proprio mentre l'orrendo mestiere stava per avere inizio ecco che una luce abbagliante, un piccolo Sole, ma intensissimo, scende lentamente dal Cielo. Ed è il Santo Nostro in persona a calare, ammantato di rosso tanto vivo da far invidia all'Assunta dei Frari.
In un istante si spezza come un fuscello il piolo che doveva martirizzare le membra dello Schiavo. Il martello si frantuma tra le mani dello sgherro sbigottito. Ed il Padrone, fino ad un istante prima assai ringalluzzito di fronte a tanta folla che avrebbe reso l'orrenda punizione ancor più esemplare, stenta a credere ai propri occhi.
Tutto accadde in un attimo. E dopo quell'istante la mia fede, che sì era forte, divenne una quercia che sfida ogni tempesta. Lo Schiavo fu, a furor di popolo, liberato. Ed il Padrone si ritirò ferito, lui sì, nell'orgoglio, e timoroso d'aver scatenato forze a lui tanto sconosciute come superiori.
E quando, dopo questo fatto miracoloso, tornai nella terra nostra amata, mi adoperai per contrattare il Robusti, che taluni chiamano, credo un filo di ironia, il Tintoretto, affinché, ascoltando la mia vivida testimonianza, potesse eternare il ricordo di quella liberazione che ebbi in sorte di vedere con questi occhi miei.
E se avrete la ventura di rimirare il grande telero potrete perfino scorgere la mia modesta figura che s'affaccia sul lato mancino della scena.
E che la fede in Cristo ci rafforzi l'animo. Amen.
In Venezia, anno del Signore 1548, sotto Sua Serenità Doge Francesco Donà.
2011/12/28
Considerazioni sulla "Cleopatra" di Michelangelo
Come sono belli i tuoi piedi nei tuoi calzari, o figlia di principe! I contorni delle tue anche sono come monili, opera di mano d'artefice. Il tuo seno è una tazza rotonda, dove non manca mai vino profumato. Il tuo corpo è un mucchio di grano, circondato di gigli. Le tue mammelle sembrano due gemelli di gazzella. Il tuo collo è come una torre d'avorio; i tuoi occhi sono come le piscine di Chesbon presso la porta di Bat-Rabbim. Il tuo naso è come la torre del Libano, che guarda verso Damasco. Il tuo capo si eleva come il Carmelo, e la chioma del tuo capo sembra di porpora; un re è incatenato dalle tue trecce! Quanto sei bella, quanto sei piacevole, amore mio, in mezzo alle delizie! La tua statura è simile alla palma, le tue mammelle a grappoli d'uva...
Pensava al "Cantico", Michelangelo, disegnando Cleopatra? Anche nel gesto estremo della morte è un ultimo gioco che viene compiuto, quello della seduzione, con le spire dell'aspide che si fondono, quasi, nella lunga treccia di capelli sulle nude spalle.
Disegna, Michelangelo, quel corpo che ha sedotto i Cesari (il cesare che genererà i kaiser e gli czar), che ha ammaliato Antonio, ma che ora è giunto alla fine della vita.
Ed anche Cesare e Antonio, un tempo potenti tra i potenti, hanno attraversato l'Acheronte e sono ormai solo ombre.
Si avvia, dunque, Cleopatra ad affrontare un'altra Imperatrice, quella che non teme esercito alcuno, che non si fa sedurre da nessun metallo lucente nè, tantomeno, da promesse o da moine.
La torsione languida del collo, che rimette in discussione quello che sarebbe stato un ritratto di profilo, rende la scena dinamica. Come si sente il calore dell'ermellino sul seno di Cecilia Gallerani qui si ascolta, trattenendo il respiro, lo strisciare del serpente, la sua presenza fredda sul seno della donna.
E gli occhi di Cleopatra, in un gesto tra l'altero ed il rassegnato, guardano un punto che va oltre la tavola, verso qualcosa, o qualcuno, che non ci è dato di conoscere.
Si, pensava al Cantico, Michelangelo, facendo dono di questo capolavoro al giovane e, a quanto sappiamo, bellissimo Tommaso Cavalieri.
Oltre l'allusione all'eros e alla morte non ci spingiamo. Neppure ci interessa, in fondo.
La vera bellezza questo ha: che si apprezza meglio in silenzio.
Marco Lorenzo Faustini
2011/06/04
Giovanni Bellini, Ragazza che si pettina, 1515
Gianbellin mi ha altamente elogiato presso molti gentiluomini. Gli piacerebbe avere qualcosa di mio, ed è venuto a trovarmi per chiedermi di fare qualcosa per lui, che me lo pagherebbe bene; tutti mi dicono che uomo retto e onesto sia mai, per cui gli sono davvero amico. E' molto vecchio, eppure è ancora il pittore migliore di tutti.
Albrecht Dürer, Lettera a Willibald Pirkheimer, 7 febbraio 1506
Albrecht Dürer, Lettera a Willibald Pirkheimer, 7 febbraio 1506
2010/04/30
Indefinibile Hopper
Le donne di Hopper, sedute a un tavolino di un bar, in una sala d'attesa di una stazione ferroviaria, appoggiate allo stipite di una porta, che fumano guardando il vuoto, attendono qualcuno (qualcosa), ma senza troppo affanno.
In vertità tutta la rappresentazione di Hopper, riguardi questa un elemento architettonico, un ponte, un edificio, una strada, una pompa di benzina, riesce sempre a trasmettere un vago senso di inquietudine la quale sfiora sempre, costeggiandoli senza oltrepassarli, i limiti della disperazione.
Questo senso dell'ineffabile, dell'inafferrabile, dell'indefinibile è difficile da raggiungere. I bozzetti e gli studi preparatori dei quadri più famosi di Hopper ci rivelano il profondo lavoro di scavo, l'analisi minuziosa ed accurata che giace dietro ad ogni colore, ad ogni sfumatura.
La luce è spesso quella del sole che si leva o di quello che tramonta, mai zenitale, mai assoluta. Più fredda ed asettica quella del mattino, più calda ed avvolgente quella della sera, ma entrambe conferiscono, ad immagini caratterizzate da un senso di immobilità, un accennato movimento di inerzia.
E questo movimento, Signori miei, altro non è che la Vita.
E scusatemi se è poco.
2008/10/27
Sacra Conversazione Renier

Protagonista di questa "Sacra Conversazione Renier" di Giovanni Bellini, datata attorno al 1483, è l'inquietudine. I quattro personaggi sono avvolti da un'oscurità opprimente. Una luce posta fuori campo, sulla sinistra della tela, illumina i quattro. Ma è una luce che serve solo ad evidenziare le loro diverse espressioni.
La Madonna ha il capo appena reclinato che rivela diffidenza, tensione. Sorregge un Gesù che però non ha l'espressione serena di un bimbo tra le braccia della madre. Sembra molto di più un Gesù che, dalle braccia della Croce, sembra chiedere al Padre "perché mi hai abbandonato?". Ed è verso l'alto che guarda, il fanciullo. La santa sulla sinistra osserva con dolce preoccupazione il fanciullo. La santa sulla destra, bella e pudica, ha uno sguardo tra lontano ed assente, ma non felice.
Lo spettatore si trova di fronte a questi personaggi in uno scenario che non consente di sottrarsi a quegli sguardi. E' come entrare in una stanza dove è appena accaduto qualcosa. Di grave, di irrimediabile. E la tecnica prodigiosa del pittore veneziano è tutta orientata a disegnare un ritratto psicologico dei protagonisti.
La Madonna ha il capo appena reclinato che rivela diffidenza, tensione. Sorregge un Gesù che però non ha l'espressione serena di un bimbo tra le braccia della madre. Sembra molto di più un Gesù che, dalle braccia della Croce, sembra chiedere al Padre "perché mi hai abbandonato?". Ed è verso l'alto che guarda, il fanciullo. La santa sulla sinistra osserva con dolce preoccupazione il fanciullo. La santa sulla destra, bella e pudica, ha uno sguardo tra lontano ed assente, ma non felice.
Lo spettatore si trova di fronte a questi personaggi in uno scenario che non consente di sottrarsi a quegli sguardi. E' come entrare in una stanza dove è appena accaduto qualcosa. Di grave, di irrimediabile. E la tecnica prodigiosa del pittore veneziano è tutta orientata a disegnare un ritratto psicologico dei protagonisti.
Ecco, forse, perché in questa occasione Bellini rinuncia a qualsiasi sfondo (anche le sue crocifissioni più crude lasciano sempre una 'via di fuga' fra morbide colline e bellissime montagne).
Qui è diverso. Qui l'intento è dare una consapevolezza del dolore che arriverà, della Morte che incombe sul fanciullo appena nato. E le tre donne, pur strette attorno al bambino, non riusciranno a difenderlo dal Male.
Ci si stacca con fatica da questa tela. E l'ultimo sguardo va alla fanciulla di destra (identificata da taluni in Maria Maddalena) che, con le mani sul petto, pur con tutto l'amore del mondo, pare cedere con malinconica rassegnazione alla perdita del fanciullo amato.
2007/06/01
Immortalità


"Quanto vi era di mortale in Albecht Dürer giace in questa tomba" recita l'epitaffio, in Norimberga, del sommo artista tedesco Albrecht Dürer (1471-1528).
L'immortalità fu l'ossessione, il leitmotiv, la struttura portante della sua ispirazione.
Immortalità: non tanto quella dell'anima (Albrecht rimase sempre cattolico pur avendo molti rapporti con la neonata chiesa Luterana) ma quella umana.
Nei suoi carteggi con Erasmo, con Luca Pacioli, con Raffaello si interrogava incessantemente sulla memoria futura presso gli uomini, sul come sarebbe stato ricordato dalla posterità.
Ecco dunque il suo interesse nell'auto ritrarsi, nel mettere sè stesso al centro della scena. Il primo autoritratto, tracciato all'età di 13 anni, è forse uno dei primi dell'intera pittura europea!
Da allora Dürer ci proporrà spesso la propria immagine, dall' "Autoritratto col fiore d'eringio", all' "Ercole nudo", al "Dürer-Cristo" addirittura!
Fosse meno genio non lo sopporteremmo, ma da lui si, possiamo accettare quest'ondata di autoreferenzialità, perfino nel 'logo' della sua firma.
Di nuovo osserviamo come Dürer sia un classico, nel senso che egli risulta del tutto contemporaneo, alla nostra epoca, a TUTTE le epoche.
Il suo viso di gentiluomo, volitivo e fragile, scansa con destrezza la polvere dei secoli e ci trasmette un'eleganza che è, quella sì, veramente immortale. L'idea dell'artista come il massimo esponente di una civiltà.
Cos'è rimasto, in fondo, dei ricchi banchieri, dei commercianti, dei condottieri? Nulla, neppure la polvere delle loro ossa. Ma lo sguardo profondo, assolutamente cosciente di sè dell'artista ci fissa dalle tele, dalle incisioni, da ogni opera.
Di nuovo comprendiamo, con Kant, come l'arte non sia la rappresentazione di una bella cosa, ma la bella rappresentazione di una cosa. Sia essa una lepre, un ciuffo d'erba o un Cristo Glorioso.
(continua)
2006/12/30
Conversazione con me stesso

Di nuovo perduto tra le stanze di un museo. Mi fa bene fisicamente stare davanti alla bellezza, molto più di una sessione di raggi U.V.A.
All’Accademia Carrara ad osservare: santi dal sorriso malinconico mentre si immolavano al Signore, città perfette, ritratti di ricchi mercanti, paesaggi dolci di colline toscane, Cristi deposti tra il pianto delle donne.
A volte è bello così: anche solo contemplare. Zitti, in silenzio, perfino io, per una volta, che parlo sempre troppo. Lasciare che la bellezza ristori le nostre vecchie ossa. Lasciare che la malinconia di certi scorci veneziani invada dolcemente l’anima. Continuare semplicemente ad osservare gondole attraversare canali, solcare maree antiche.
Mi affaccio a guardare un mondo di morti che, per il potere taumaturgico dell'arte, non fa affatto paura. E' come guardare un vecchio film dove Gilda continua a scendere le scale e a sfilarsi maliziosamente il guanto.
Anche se Gilda, da tempo, non c'è più.
Che bello, dopo il morire, vivere ancora.
Francesco Guardi, Rio dei Mendicanti, Accademia Carrara Bergamo
2006/05/30
Antonello da Messina e il martirio

L'altro giorno ho preso la macchina del tempo e sono sceso, senza alzare troppa polvere, intono al 1475. Martirizzavano il buon Sebastiano. E lui era lì, con uno sguardo perso nell'infinito della sua fede, mentre le frecce gli trapassavano il corpo seminudo. Da notare l'indifferenza della città intorno a lui: una donna allattava, gentiluomini parlavano del più e del meno. Tappeti appoggiati alla balaustra in attesa della periodica battitura. E un uomo steso in terra, le froge del naso ben aperte nel suo sonoro russare. Camini ben si stagliavano sull'azzurro del cielo appena annuvolato. Non si vedeva ma potrei giurare che appena più in là c'era anche il mare. Nella città ideale tutto scorre sereno, perfino l'orrore del martirio rientra in un disegno più grande.
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