"The Woodlanders" di Thomas Hardy (1887) è un romanzo che colpisce. Ma le ragioni di questo fascino indubbio sono tanto sottili e sotterranee che per individuarle occorre armarsi di pazienza e del coltellino affilato dell'analisi (Pirsig).
Cercheremmo invano un personaggio a tutto tondo come quello che compare ne "L'Idiota" di Dostoevskij (1869), l'uomo positivamente buono, il Cristo del XIX secolo. Nè ritroveremmo in Grace Melbury quelle donne eroiche, nel bene o nel male, quali furono "Madame Bovary" (1856) o la Connie de "L'amante di Lady Chatterley" (1929).
Non c'è il fondale epico di "Guerra e Pace" (1865) né si ritrovano i colpi di scena ed i bruschi cambi di ritmo dello Stendhal de "Il Rosso e il Nero" (1830). Non c'è il sottobosco criminale degli "Splendori e miserie delle cortigiane" (1838) né le improbabili vicende del Jean Valjean dello sconfinato affresco de "I Miserabili" (1862).
Non c'è il fondale epico di "Guerra e Pace" (1865) né si ritrovano i colpi di scena ed i bruschi cambi di ritmo dello Stendhal de "Il Rosso e il Nero" (1830). Non c'è il sottobosco criminale degli "Splendori e miserie delle cortigiane" (1838) né le improbabili vicende del Jean Valjean dello sconfinato affresco de "I Miserabili" (1862).
No.
Qui sembra di assistere al paziente lavoro di un pâtissier che, strato dopo strato, ci propone un perfetto millefoglie. La narrazione procede continua, senza fretta, come la suonata di un pianista che, cosciente dell'assoluto dominio della propria tecnica, riesce a calamitare l'attenzione del proprio pubblico senza grandi clamori.
Il paesaggio, il bosco dai suoi ritmi lenti, si spoglia delle proprie foglie e, da sfondo, passa a fare da protagonista. Si ascoltano i suoni rarefatti della foresta, il quieto trascorrere delle stagioni. Ma nulla è arcadia, paesaggio campestre di un tempo adamitico che mai fu. C'è il duro lavoro degli uomini, c'è il fumo dei focolari, ci sono le mani arrossate dal freddo ed indurite dall'ascia, gli schizzi di sidro, le montagne di corteccia accatastate, i carri che portano via i tronchi tagliati.
In mezzo a questa vita dura e senza clamori c'è spazio per qualche pettegolezzo, ma le voci si spengono in fretta, soffocate dalla coltre di neve, perdute nella nebbia.
Qui sembra di assistere al paziente lavoro di un pâtissier che, strato dopo strato, ci propone un perfetto millefoglie. La narrazione procede continua, senza fretta, come la suonata di un pianista che, cosciente dell'assoluto dominio della propria tecnica, riesce a calamitare l'attenzione del proprio pubblico senza grandi clamori.
Il paesaggio, il bosco dai suoi ritmi lenti, si spoglia delle proprie foglie e, da sfondo, passa a fare da protagonista. Si ascoltano i suoni rarefatti della foresta, il quieto trascorrere delle stagioni. Ma nulla è arcadia, paesaggio campestre di un tempo adamitico che mai fu. C'è il duro lavoro degli uomini, c'è il fumo dei focolari, ci sono le mani arrossate dal freddo ed indurite dall'ascia, gli schizzi di sidro, le montagne di corteccia accatastate, i carri che portano via i tronchi tagliati.
In mezzo a questa vita dura e senza clamori c'è spazio per qualche pettegolezzo, ma le voci si spengono in fretta, soffocate dalla coltre di neve, perdute nella nebbia.
C'è un mondo che lascia intenzionalmente fuori l'altro mondo. Le cariche degli ussari non passano per questi sentieri, nessun imperatore ha dormito in queste locande eppure provando il freddo di quelle mattine di sole pallido ci siamo sentiti legati a questa terra, fino a desiderare di affondare gli stivali nel fango ed accarezzare i nostri mansueti cavalli.
Non a caso Thomas Hardy è, oltre che grande scrittore, poeta e, come insegnava un mio professore di letteratura c'è, a volte, più poesia in un romanzo che in una raccolta di versi.
Buona, buonissima lettura, amici miei.
Buona, buonissima lettura, amici miei.
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