2014/02/21

San Marco, il Robusti ed io...



Ve lo giuro, sull'onore mio e sul Santo Vangelo di Marco, che le cose andarono come di seguito narrate.

Correva infatti l'anno del Signore 154* ed io ero lì, nella cittadina di ***, piccola ed amena località assai d'appresso ad Alessandria, in Terra d'Egitto, in missione per conto di Sua Serenità Doge Pietro Lando (che Iddio lo abbia in gloria).

Non mi dilungo, dato che un vincolo di segretezza e di riservatezza mi lega, sui fini ultimi dell'arduo e periglioso compito assegnatomi. Di certo è che il clima, in quei luoghi ed in quei giorni, era assai teso. E per questa ed altre ragioni affidavo spesso le mie preghiere alla cura e alla custodia del venerato Santo Marco, che da sempre protegge la Nostra Serenissima Repubblica sotto lo stemma del Leone alato.

Ero dunque lì, in attesa che un messo mi recasse nuove di quel complesso ed intricato negozio che dalle amate sponde dell'Adriatico fino a quelle terre per me tanto straniere mi aveva sospinto.

E per ingannare l'attesa passeggiavo spesso tra quei vicoli affollati di mercanti e profumati delle spezie più esotiche, perdendomi fra palmeti e maestose architetture. Quand'ecco che, ad una svolta del mio vagare, odo un clamore di grida altissime. Il richiamo della curiosità prese il sopravvento perfino su quel dovere imperativo di mantenermi, il più possibile, nell'ombra. Cosa accadeva, dunque?

Uno schiavo, illuminato dalla fede in Cristo, era stato scoperto a venerare le reliquie di un Santo. La cosa non era affatto piaciuta al di lui Padrone che, appreso il fatto, aveva ordinato che lo sventurato avesse gli arti trafitti da un acuminato palo e da un martello.

E mentre i suoi sgherri s'apprestavano ad infliggergli una tanto crudele condanna il poveretto aveva rivolto una preghiera, l'ultima forse, della sua vita mortale, al Santo Nostro Venerato.

E proprio mentre l'orrendo mestiere stava per avere inizio ecco che una luce abbagliante, un piccolo Sole, ma intensissimo, scende lentamente dal Cielo. Ed è il Santo Nostro in persona a calare, ammantato di rosso tanto vivo da far invidia all'Assunta dei Frari.

In un istante si spezza come un fuscello il piolo che doveva martirizzare le membra dello Schiavo. Il martello si frantuma tra le mani dello sgherro sbigottito. Ed il Padrone, fino ad un istante prima assai ringalluzzito di fronte a tanta folla che avrebbe reso l'orrenda punizione ancor più esemplare, stenta a credere ai propri occhi.

Tutto accadde in un attimo. E dopo quell'istante la mia fede, che sì era forte, divenne una quercia che sfida ogni tempesta. Lo Schiavo fu, a furor di popolo, liberato. Ed il Padrone si ritirò ferito, lui sì, nell'orgoglio, e timoroso d'aver scatenato forze a lui tanto sconosciute come superiori.

E quando, dopo questo fatto miracoloso, tornai nella terra nostra amata, mi adoperai per contrattare il Robusti, che taluni chiamano, credo un filo di ironia, il Tintoretto, affinché, ascoltando la mia vivida testimonianza, potesse eternare il ricordo di quella liberazione che ebbi in sorte di vedere con questi occhi miei.

E se avrete la ventura di rimirare il grande telero potrete perfino scorgere la mia modesta figura che s'affaccia sul lato mancino della scena.

E che la fede in Cristo ci rafforzi l'animo. Amen.

In Venezia, anno del Signore 1548, sotto Sua Serenità  Doge Francesco Donà.

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