2010/04/30

Indefinibile Hopper


C'è un sentimento che Edward Hopper (1882 - 1967) riesce ad esprimere meglio di chiunque altro: una solitudine, spesso declinata al femminile, del tutto scarna, priva di orpelli, asciutta ed essenziale. Solitudine che, se non gioiosa, reca comunque una sottile traccia di autocompiacimento.

Le donne di Hopper, sedute a un tavolino di un bar, in una sala d'attesa di una stazione ferroviaria, appoggiate allo stipite di una porta, che fumano guardando il vuoto, attendono qualcuno (qualcosa), ma senza troppo affanno.

In vertità tutta la rappresentazione di Hopper, riguardi questa un elemento architettonico, un ponte, un edificio, una strada, una pompa di benzina, riesce sempre a trasmettere un vago senso di inquietudine la quale sfiora sempre, costeggiandoli senza oltrepassarli, i limiti della disperazione.

Questo senso dell'ineffabile, dell'inafferrabile, dell'indefinibile è difficile da raggiungere. I bozzetti e gli studi preparatori dei quadri più famosi di Hopper ci rivelano il profondo lavoro di scavo, l'analisi minuziosa ed accurata che giace dietro ad ogni colore, ad ogni sfumatura.

La luce è spesso quella del sole che si leva o di quello che tramonta, mai zenitale, mai assoluta. Più fredda ed asettica quella del mattino, più calda ed avvolgente quella della sera, ma entrambe conferiscono, ad immagini caratterizzate da un senso di immobilità, un accennato movimento di inerzia.

E questo movimento, Signori miei, altro non  è che la Vita.

E scusatemi se è poco.

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