Gli accenni della signora Spoljanskij avevano evocato l'immagine di Mira con forza inconsueta. Solo nel momento del distacco, alla fine di un male incurabile, con la lucidità mentale della morte imminente, sarebbe stato possibile farvi fronte. Per poter vivere secondo ragione, Pnin aveva insegnato a se stesso, negli ultimi dieci anni, a non ricordare mai Mira Belockin - non in quanto, di per sé, la rievocazione di un amore giovanile, banale e breve, minacciasse la sua serenità spirituale, ma perché, volendo essere sinceri con se stessi, era impossibile credere che sussistesse una qualsiasi coscienza, e di conseguenza una qualsiasi consapevolezza, in un mondo dove erano possibili cose come la morte di Mira. Bisognava dimenticare - perché non ci sarebbe stato modo di convivere con il pensiero che quella giovane donna piena di grazia, fragile e tenera, con quegli occhi, quel sorriso, quei giardini e quelle nevi sullo sfondo, era stata portata su un carro bestiame in un campo di sterminio e uccisa con un'iniezione di fenolo nel cuore, nel cuore soave che ci si era sentiti battere sotto le labbra nel crepuscolo del passato. E poiché le precise circostanze della morte di lei non erano note, nella mente di Pnin Mira continuava a morire di un gran numero di morti, e a passare attraverso un gran numero di resurrezioni, solamente per morire ancora e ancora, trascinata via da un'infermiera specializzata, inoculata di sostanze abominevoli, di bacilli del tetano, di vetri rotti, asfissiata con il gas sotto una finta doccia all'acido prussico, bruciata viva in una fossa sopra una catasta di legno di faggio imbevuto di benzina...
da "Pnin" di Valdimir Nabokov
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