2006/03/24

Lo stanziamento














Lo stanziamento
di Mario Benedetti


Presso il nostro ufficio vigeva il medesimo stanziamento dall’ anno millenocecentoventie-passa, ossia da un’epoca in cui la gran parte di noi stava ancora combattendo con la geografia e le frazioni. Ciononostante il Capo si ricordava dell’avvenimento e a volte, quando il lavoro rallentava, si sedeva familiarmente su una delle nostre scrivanie e, con le gambe penzoloni che mostravano, sotto i pantaloni, immacolati calzini bianchi, ci relazionava con le consuete cinquecentonovantotto parole di rito, su quel lontano magnifico giorno in cui il suo Capo – egli era allora Primo Funzionario – battendogli la spalla aveva detto: “Giovane, abbiamo un nuovo stanziamento”, col sorriso ampio e soddisfatto di chi ha già calcolato quante camicie potrà acquistare con l’aumento.
Un nuovo stanziamento era la massima ambizione di un ufficio pubblico. Noi sapevamo che altre dipendenze con personale più numeroso della nostra avevano ottenuto uno stanziamento ogni due o tre anni. E le osservavamo, dalla nostra piccola isola amministrativa, con la stessa disperata rassegnazione con cui Robinson vedeva sfuggire le navi all’orizzonte, sapendo che era altrettanto inutile lanciare segnali come pure provare invidia. La nostra invidia o i nostri segnali sarebbero serviti a ben poco, poiché neppure negli anni d’oro superavamo i nove impiegati, ed era logico che nessuno si interessasse ad un ufficio così insignificante.
Siccome sapevamo che nessuno al mondo avrebbe accresciuto il nostro budget, circoscrivevamo la nostra speranza ad una progressiva riduzione delle uscite che, sulla base di un cooperativismo rudimentale, era stata in buona parte realizzata. Io, ad esempio, pagavo la yerba[1]; il Primo Ausiliario il tè pomeridiano; il Secondo Ausiliario lo zucchero; il pane tostato il Primo Funzionario e il Secondo Funzionario il burro; le due dattilografe e il portiere erano esonerati, però il Capo, che guadagnava qualcosa in più, pagava il giornale che poi leggevamo tutti.
I nostri passatempi individuali si erano ridotti in misura analoga. Andavamo al cinema una volta al mese, facendo attenzione ad assistere a pellicole diverse, in modo che poi raccontandole, in ufficio, fossimo tutti aggiornati sulle ultime uscite.
Avevamo esasperato il culto dei giochi di cervello, come la dama e gli scacchi, che costavano poco e facevano passare il tempo senza sbadigli. Giocavamo dalle cinque alle sei, quando era ormai impossibile che arrivassero nuove pratiche, dato che l’avviso allo sportello avvertiva che dopo le cinque non si accettavano “richieste”. Lo avevamo letto tante di quelle volte, quel cartello, che non sapevamo più chi lo avesse scritto, né che cosa significasse la parola “richiesta”. Alle volte veniva qualcuno a chiedere il suo codice di “richiesta”. Noi gli davamo quello di pratica e il tipo se ne andava soddisfatto. Così, in qualche modo, una “richiesta” poteva essere, se vogliamo, una pratica.
Tutto sommato la vita che passavamo lì non era malvagia. Ogni tanto il Capo si sentiva obbligato ad illustrarci i vantaggi della pubblica amministrazione rispetto all’iniziativa privata, anche se qualcuno fra noi riteneva che fosse ormai un po’ tardi, per lui, per pensarla in altro modo.
Uno dei temi era quello della sicurezza. Sicurezza che non ci lasciassero disoccupati. Perché potesse capitare una cosa del genere occorreva che si riunissero i senatori, ma noi sapevamo che i senatori a malapena si incontrano per interpellare un Ministro. Cosìcche, da questo punto di vista, il Capo aveva ragione. La sicurezza c’era. Era pur vero però che c’era anche la certezza che mai avremmo avuto un aumento tale da permetterci di comprare un soprabito in contanti. Però il Capo, che neppure lui poteva acquistarlo, osservava che non era certo quello il momento di mettersi a criticare il lavoro e meno che meno il nostro. E, come sempre, aveva ragione.
Ma quella pace ormai quasi definitiva che regnava presso il nostro ufficio, che ci lasciava piccini piccini come piccini erano i nostri destini, e quasi intontiti per l’assoluta mancanza d’insonnia, fu bruscamente spezzata dalla notizia che recò il Secondo Funzionario. Questi era nipote di un Primo Funzionario del Ministero e risultava che costui - sia detto ciò col dovuto rispetto e senza nessun malanimo - aveva saputo che colà si parlava di un nuovo stanziamento per il nostro ufficio. Ma dato che, di primo impatto, non sapevamo chi fosse (o fossero) a parlarne, ci limitammo a sorridere con quell’ironia patinata delle occasioni particolari, come se il Secondo Funzionario fosse uscito leggermente di senno, o come se ritenessimo che quell’altro, lo zio, ci prendesse per fessi. Però quando si seppe che, sempre a detta del tipo, quell’altro era il Segretario stesso, ossia l’alter ego del Ministro, sentimmo immediatamente che nelle nostre vite da settanta pesos qualcosa stava per cambiare, come se un’invisibile mano avesse infine stretto quella fra le nostre viti che risultava allentata, come se avessero, d’improvviso, liberato a suon di battipanni, tutta la rassegnazione ed il fatalismo.
Nel mio caso, la prima cosa che mi sovvenne di pensare e pronunciare fu “penna stilografica”. Fino a quel momento non lo avevo saputo, di voler comperare una penna stilografica, però non appena il Secondo Funzionario scoperchiò di colpo, con questa notizia, quell’enorme futuro che includeva tutto il possibile e l’immaginabile, per quanto remoto esso fosse, immediatamente estrassi da chissà quale anfratto dei miei desideri una penna stilografica di color nero col cappuccio d’argento ed il mio nome inciso. Dio solo sa in che momento questo desiderio si era radicato in me.
Vidi ed udii inoltre il Primo Ausiliario accennare ad una bicicletta, il Capo contemplare distrattamente il tacco consumato della sua scarpa e una delle segretarie disprezzare sdegnosamente la sua borsetta vecchia di un lustro.
Vidi ed udii come noi tutti iniziassimo subito a scambiarci i nostri progetti, senza che ci interessasse veramente quello che l’altro diceva, però avendo l’esigenza di trovare uno sfogo a tanta finora contenuta ed ignorata speranza. Vidi ed udii per di più come tutti decidemmo di festeggiare la buona novella finanziando, con la moneta di emergenza, un eccezionale pomeriggio a biscotti.
Quello - i biscotti - fu solo il primo passo. Poi fu la volta del paio di scarpe che si comprò il Capo. Dopo le scarpe la mia penna stilografica acquistata a mezzo di dieci cambiali. E dopo la mia stilografica il soprabito del Secondo Funzionario, la borsetta della Prima Dattilografa, la bicicletta del Primo Ausiliario. Dopo un mese e mezzo eravamo tutti indebitati e ansiosi.
Il Secondo Funzionario aveva recato altre notizie. In primo luogo che lo stanziamento era all’esame della Segreteria del Ministero. Poi che no. Che non era in Segreteria. Era in Economato. Però il Capo dell’Economato era ammalato e occorreva il suo parere. Noi tutti ci preoccupavamo per la salute di questo Capo di cui solo sapevamo che si chiamava Eugenio e che stava esaminando il nostro stanziamento. Avremmo voluto addirittura un bollettino quotidiano sul suo stato di salute. Ma avevamo solo diritto alle notizie disorientanti dello zio del nostro Secondo Funzionario. Il Capo dell’Economato peggiorava. Vivemmo una tristezza così prolungata che il giorno della sua scomparsa provammo, come i parenti di un’asmatico grave, una sorta di sollievo al pensiero di non doverci più preoccupare per lui. In verità diventammo egoisticamente allegri poiché questo significava la possibilità che rimpiazzassero il posto vacante e nominassero un altro responsabile che avrebbe esaminato il nostro stanziamento.
A quattro mesi dalla morte di don Eugenio fu nominato un nuovo responsabile dell’ Economato. Quel pomeriggio sospendemmo la partita a scacchi. Il Capo si mise a fischiettare un’aria dell’ ”Aida” e noi divenimmo, per un motivo o per l’altro, così nervosi che dovemmo uscire per qualche minuto a guardare le vetrine. Al ritorno ci attendeva una novità. Lo zio aveva fatto sapere che il nostro stanziamento non era mai stato al vaglio dell’Economato. C’era stato un errore. Di fatto non era mai uscito dalla Segreteria. Questo comportò un notevole annebbiamento della nostra visuale. Se lo stanziamento al vaglio fosse stato presso l’Economato la cosa non ci avrebbe allarmato. In fondo sapevamo che fino a quel momento non era stato preso in esame solo a causa della malattia del responsabile. Ma se era rimasto sempre in Segreteria, della quale il Segretario –cioè il suo massimo responsabile—godeva di perfetta salute, la sua giacenza non era dovuta a nulla e poteva trasformarsi in un’estrema dimora.
Lì iniziò il momento più critico del nostro disorientamento. In un primo momento ci guardavamo con l’espressione scoraggiata di circostanza. All’inizio ancora chiedevamo “Sanno qualcosa?”. Poi optammo per dire “E?” e finimmo per interrogarci solo a colpi di sopracciglia. Nessuno sapeva niente. E se qualcuno sapeva qualcosa era che lo stanziamento era ancora al vaglio della Segreteria.
A otto mesi dalla notizia originaria era già due mesi che la mia stilografica aveva cessato di funzionare. Il Primo Ausiliario si era rotto una costola a causa della bicicletta. Un ebreo era il nuovo proprietario dei libri che il Secondo Ausiliario aveva acquistato; l’orologio del Primo Funzionario ritardava di un quarto d’ora al giorno; le scarpe del Capo avevano già due mezze suole (una cucita, l’altra inchiodata) e il soprabito del Secondo Funzionario aveva i baveri consumati ed eretti come due “V”.
Una volta venimmo a sapere che il Ministro si era informato riguardo allo stanziamento. Entro una settimana, si pronunciò la Segreteria. Noi volevamo sapere cosa diceva la relazione, però lo zio non potè accedervi poiché il documento era marcato “strettamente confidenziale”. Ma noi pensammo che questa fosse una motivazione insensata, perché noi, per tutti i documenti che recavano etichette tipo “molto urgente”, “procedimento diretto”, “strettamente riservato” usavamo lo stesso trattamento riservato a quelli normali. Però, a quanto sembrava, presso il Ministero non utilizzavano le stesse procedure.
In un’altra occasione apprendemmo che il Ministro aveva parlato dello stanziamento con il Segretario. E dato che alle conversazioni non si apponeva nessuna etichetta particolare lo zio potè comprendere e ci riportò che il Ministro era d’accordo. Con cosa e con chi era d’accordo? Quando lo zio volle verificare questo secondo aspetto il Ministro non era più d’accordo. Allora, senza ulteriori spiegazioni, comprendemmo che il Ministro all’inizio era stato d’accordo con noi.
Un'altra volta apprendemmo che lo stanziamento era stato posticipato. Lo avrebbero discusso nella rinunione del successivo venerdi, però per i quattordici venerdi che seguirono quel “venerdi successivo” lo stanziamento non fu discusso. Allora iniziammo a controllare le date delle riunioni previste e ad ogni sabato ci ripetevamo: “Bene allora sarà il prossimo venerdi. Vediamo che succede”. E non succedeva nulla. Mai nulla di nulla.
Io ero già troppo preso a rimanere in piedi perché la stilografica aveva incrinato il mio ritmo economico e da allora non ero riuscito a recuperare il mio equilibrio. Per questo mi venne in mente che forse potevamo incontrare il Ministro.
Per vari pomeriggi fummo impegnati a provare il colloquio. Il Primo Funzionario faceva la parte del Ministro ed il Capo, che era stato designato, per acclamazione, a parlare a nome di tutti, gli presentava la nostra istanza. Quando fummo pronti chiedemmo udienza presso il Ministero e ce la concessero per il giovedì. Quel giovedì lasciammo dunque l’ufficio nelle mani di una dattilografa e del portiere e ce ne andammo a conversare col Ministro. Conversare con un Ministro non è la stessa cosa che conversare con una qualsiasi persona. Per conversare col Ministro occorre attendere due ore e mezza e a volte accade, come a noi accadde, che neppure dopo queste due ore e mezza si possa parlargli. Solo giungemmo al cospetto del Segretario che prese nota delle parole del Capo, di molto inferiori alla peggiore delle nostre prove, dove nessuno di noi balbettava, e tornò con la risposta del Ministro, che si sarebbe discusso del nostro stanziamento nella sessione del giorno seguente.
Quando -moderatamente soddisfatti- uscimmo dal Ministero, vedemmo che un’auto accostava al portone e il Ministro ne scendeva.
Ci sembrò un po’ strano che il Segretario ci avesse recato la personale risposta del Ministro senza che questi fosse presente. Però in realtà ci conveniva essere un po’ fiduciosi e tutti assentimmo con viva soddisfazione quando il Capo disse che sicuramente il Segretario aveva consultato il Ministro per telefono.
Il giorno seguente, alle cinque del pomeriggio, eravamo tutti piuttosto nervosi. Le cinque del pomeriggio era l’orario che ci avevano indicato per iniziare a chiamare. Avevamo lavorato molto poco; eravamo troppo inquieti perché le cose procedessero bene. Tutti tacevano. Il Capo non canticchiava neppure la sua aria. Lasciammo trascorrere sei minuti per pura prudenza. Poi il Capo compose il numero che tutti conoscevamo a memoria e chiese del Segretario. La conversazione durò assai poco. Tra i vari “Si”, “Ah, si” ,“Ah, certo” del Capo si intuiva il ronzio indistinto dell’altro. Quando il Capo riagganciò la cornetta tutti sapevamo già la risposta. Solo per averne conferma ci facemmo attenti: ”Sembra che oggi non abbiano avuto tempo. Però il Ministro dice che lo stanziamento sarà discusso senz’altro nella sessione del prossimo venerdi”. (1949)

[1] Un’erba da infusione largamente utilizzata in Sud America, specie in Argentina (NdT)

traduzione Marco Lorenzo Faustini 2000
foto Marco Lorenzo Faustini 2006

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