Marco Lorenzo Faustini
Marco
Lorenzo Faustini
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2020 (ID 3290050)
Storia di
Sebastianus Venetus il pittore
da Venezia alla Città Eterna
“alle
mie amate città, Roma e Venezia”
Prefazione
Di
cosa parli questa storia è presto detto: di un assedio. Le vicende storiche
descritte riguardano i drammatici mesi di quel lontano 1527 e vengono narrate con
gli occhi del grande -a mio avviso grandissimo- artista veneziano che fu Sebastiano Luciani,
meglio noto come Sebastiano Del Piombo.
Ma una
confessione va fatta. Mai avrei immaginato, quando cominciai a raccogliere i
materiali, le testimonianze di quell’accerchiamento, in particolar modo di
Castel Sant’Angelo, che sarei finito anch’io, pochi mesi dopo, in una
drammatica e forzata quarantena, causata da un virus tanto piccolo e
insignificante quanto letale.
Dunque
le riflessioni dell’artista, rinchiuso tra le mura protettive e al medesimo
tempo opprimenti della fortezza, vengono a sovrapporsi alle mie personali
preoccupazioni.
Quel
senso di impotenza, di orrore, di disperazione che provò Sebastiano nel
guardare lo stupro della Città Eterna, perpetrato da orde di tedeschi, spagnoli
e… italiani non è, credo, tanto distante, dal nostro ansioso guardare i
notiziari diffusi dalla TV e dalla rete internet e sentirci tanto inutili e
insignificanti.
Lasciatemi
credere, in questi giorni bui, che con l’aiuto della scienza, con un profondo
senso del bene comune, superando discordie e meschine faziosità, riusciremo a passare
questo difficile guado.
Questo
scrivo e spero, in cuor mio, di non sbagliare.
Il
tempo dirà.
Roma,
aprile 2020
Parte prima -
Nel ventre della balena
“Tu ti dai pena per quella pianta di ricino per cui non hai fatto nessuna fatica e che tu non hai fatto spuntare, che in una notte è cresciuta e in una notte è perita; ed io non dovrei aver pietà di Ninive, quella grande città, nella quale sono più di centoventimila persone, che non sanno distinguere fra la mano destra e la sinistra, e una grande quantità di animali?”
(Giona 4, 10-11)
A dì 11 [maggio 1527]. La mattina tutta la terra fu piena di tal nove di Roma, chi la credeva et chi non, et maxime fin nona non esser venuto alcun avixo; di che tutti si meravegiava(Marin Sanudo, Diari del Sacco di Roma)
I.
“Impiccheranno
il Papa”.
La voce, che nei primi giorni dell’assedio era poco più che
un sussurro, trasmesso di bocca in bocca tra mille cautele, si faceva sempre più
insistente.
Come un morbo silenzioso e letale essa s’incuneava tra le
merlature di Castel Sant’Angelo, scivolava lungo i camminamenti, tra le logge,
infiltrava le sale, le armerie, le prigioni.
“I luterani impiccheranno il Papa. Lo ha giurato lo stesso von
Frundsberg ai suoi soldati, l’ho udito con queste orecchie mie e quelli ridevano,
ridevano a crepapelle” diceva uno dei militi della guardia e i suoi compagni di
drappello lo ascoltavano per nulla increduli.
“Papa Clemente teme d’essere avvelenato dai suoi stessi
cardinali” era l’altra voce che girava “da giorni non fa che nutrirsi di
sardine e beve solo acqua piovana”.
Le dicerie, tra quelle mura, erano tante, insistenti,
contraddittorie, una cacofonia di bestemmie, di preghiere, di minacce.
È finita, ci ammazzeranno tutti, senza pietà. Hanno forse risparmiato
qualcuno degli Svizzeri? Nessuno. E i poveri studenti del Collegio? Passati uno
ad uno a fil di spada”.
Sebastiano taceva, mentre si muoveva fra quegli angusti
ambulacri; si limitava ad ascoltare e rifletteva, autentica anima in pena, fra
quella folla di soldati che si davano il cambio, sfiniti, sudati e sporchi.
Sempre più turbato col passare dei giorni e delle settimane si
era arrischiato qualche volta a gettare un’occhiata dall’alto dei torrioni e la
visione che s’era offerta ai suoi occhi era stata desolante.
La Città Eterna era in fiamme.
“Roma è caduta, è caduta Roma”.
Il buon uomo ripeteva tra sé quella frase come una litania,
ancora incredulo che le mura possenti della città avessero mostrato tanta fragilità.
“… e la colpa è solo del Papa, tutta sua, senza appello. Quegli
infiniti giochi di equilibrio, quelle promesse, quelle alleanze auspicate,
minacciate, ripensate. Come poteva finire altrimenti? Io sono uomo d’armi, la politica
cosa volete, non la mastico e se c’è guerra ben venga la guerra, fin quando non
ti accoppano è anche un buon affare… ma questa?” si lamentava uno dei soldati coi
propri compagni.
Ma non aveva finito di parlare che già il fiorentino
Benvenuto, rissoso e irascibile come sempre, gli si era avventato contro.
“Come osi, come ti permetti di giudicare l’operato del Papa?
Cosa ne sai tu, che a malapena riesci ad allacciarti da solo gli stivali, di
alleanze e di accordi?”.
Sebastiano, come già in passato, s’era messo di mezzo e
aveva allontanato dal drappello delle guardie il focoso toscano, sempre pronto
ad attaccar briga.
“Con tutti i nemici che abbiamo manca solo che ci si metta
anche a far la guerra tra noi” gli disse tentando di calmarlo.
A ben guardare più diversi fra loro i due uomini non
potevano essere. Sebastiano aveva tratti delicati, gli occhi color acquamarina,
lo sguardo intenso. Riflessivo, silenzioso, di carattere sempre incline alla
malinconia non mancava però di spirito e qualche sottile arguzia gli sgorgava
naturale dalla bocca soprattutto quando si trovava al cospetto di una bella
donna. In tal caso egli un poco si apriva, i tratti del viso si facevano più distesi,
i gesti più ampi, la voce più sicura.
Benvenuto, per converso, era d’indole sulfurea, si
infiammava per un nonnulla e quel suo fisico vigoroso, quella sua barba da capitano
di ventura incutevano, nell’interlocutore, un senso di timore. Agile, spaccone,
la voce possente, al suo passaggio gli astanti si scansavano a evitar questioni
che quello non avrebbe affatto disdegnato risolvere menando le mani.
Oltre all’arte che praticavano, il primo era pittore e il
secondo orafo, un’altra passione li accumunava: quella per la musica.
“Io credevo che avrei servito per sempre la musa Euterpe,
quando ero fanciullo. Ero felice, a Venezia, quando avevo un liuto in mano ma
ora… ora la musica che si s’ascolta è solo quella degli schioppi, degli
archibugi, dei falconetti” fece Sebastiano, sperando che quel tema avrebbe
distratto il suo amico e gli avrebbe evitato, forse, l’ennesima scazzottata.
“La musica, Sebastiano, ti par tempo di musica? E dire che
ero arrivato a Roma per suonare nella fanfara del Papa. E il falconetto, dici?
Lo sai che questa impensabile disfatta ha avuto inizio proprio da un micidiale colpo
sparato da quell’arma? Lo ricordi il nipote del compianto Papa Leone, quel tal
Giovanni? Era lui a presidiare il fronte della Lega sul Mincio, a Governolo…
povero illuso” rispose Benvenuto.
“Illuso, dici? E perché?”
“Perché quello credeva che fossimo ancora ai tempi di
Lancillotto e Ginevra, delle sfide di cavalleria con la lancia in resta. Se ne
andava, lo stolto, in ricognizione sull’argine del Po facendo sfoggio di coraggio.
Ma glielo avevano detto… sta’ attento che i lanzi
sono lì e con quella tua bella armatura lucente sei un bersaglio facile”
“Giovanni delle Bande Nere… era così sprovveduto, dunque?”
“Sprovveduto… non so. Chissà, forse aveva ormai intuito che
la guerra s’è mutata in una faccenda assai diversa, che il mestiere delle armi come
lo si intendeva una tempo è finito per sempre, ma si sa, le abitudini son
difficili da cambiare. Era un buon comandante, sai, un condottiero che sapeva
maneggiare la soldataglia più rozza e indisciplinata, e forse è per questo che
si è esposto in maniera tanto temeraria”
“Ma una volta non combatteva al fianco dei nostri nemici,
gli imperiali? “
“Sicuro e ne fece di vittime tra francesi e svizzeri. E
quando il suo potente zio Papa Leone morì, Giovanni fece annerire le insegne delle
sue truppe per manifestare il proprio lutto. Ma poi con l’arrivo di Papa
Clemente, che tu ben conosci, tutto è cambiato”
“Benvenuto, lo sai, io ho deposto il liuto e ho imbracciato
il pennello ma di queste cose, di questa politica capisco poco o nulla, ho la
testa in altri affanni, anzi ora non ho la testa per nulla e mi chiedo se mai
usciremo vivi da questa fortezza. Mi manca l’aria, mi manca la mia laguna, mi
manca Venezia”
“Se prometti di non farti accoppare ti porto sui torrioni a
sparare ai luterani. Sai che il Santo Padre mi ha assicurato che tutti quelli
che abbatteremo in difesa di Santa Romana Chiesa non ci saranno computati
quando saremo al cospetto di San Pietro?”
“Un bel ragionamento da cristiano” gli rispose a mezza voce Sebastiano
con un sospiro.
***
Di nuovo si avvicendavano i soldati di guardia e la sera,
calando sulla città, recava una parvenza di pace. Ma fuochi illuminavano la
notte e di nuovo si udivano, di lontano, grida come latrati di cani inferociti mentre
il Tevere continuava a scorrere, ignaro di quegli umani affanni, di quelle
umane miserie.
II.
Da tempo la Penisola era diventata terra di conquista e
dunque terra di battaglie. La sfida tra Francesco I, Re di Francia e Carlo
D’Asburgo, Imperatore del Sacro Romano Impero, sembrava però conclusa dopo la
terribile battaglia di Pavia.
Il Re, sconfitto, era stato preso prigioniero e condotto in
Spagna dove era stato costretto a firmare un umiliante trattato di resa e
dunque ogni pretesa francese sull’Italia pareva ormai compromessa. I figli
stessi del monarca erano stati trattenuti a Madrid come ostaggi e le acque sembravano
ormai acquietarsi, ma era solo una calma illusoria e temporanea, giacché nuove
tempeste si avvicinavano.
“Tutti danno addosso al Pontefice, ma al suo posto cosa
avreste fatto? Bisognava arginare gli spagnoli. Quel Carlo sembrava il padrone
del mondo e Papa Clemente doveva in qualche modo tentare di fermarlo”
commentava uno dei capi guardia.
Subito un suo pari grado replicò, come a proseguire un
discorso iniziato tempo prima “…ma questa idea della Lega… il Pontefice si è
fidato troppo dei suoi alleati, da sprovveduto. Del resto fin quando la guerra
è lontana siamo tutti eroi, nevvero? Ma ora che la guerra è qui, dove sono i
nostri alleati? Dove sono i veneziani, a parte questo bel pittore Sebastiano?
Dove sono i fiorentini, a parte questo bellimbusto che s’azzufferebbe financo
con sua madre?”.
A quelle parole, in verità non prive di buonsenso, Sebastiano
e Benvenuto rimasero in silenzio anche se il toscano mostrava segni di una mal
trattenuta insofferenza.
I ragionamenti dei soldati, alla fin fine, erano ben lungi
dall’esser bislacchi, ed era
pur vero che Papa Clemente si era trovato, alla morte del suo
predecessore Adriano, un accordo già bello e fatto con gli imperiali.
“Lo sapete come andò il Conclave che elesse Papa Clemente?”
faceva un capoposto con l’aria di quello che parla a ragion veduta “…la metà
dei cardinali era filofrancese e l’altra parteggiava con gli imperiali. Il buon
Papa Adriano, che Iddio lo abbia in gloria, aveva ritenuto la minaccia di Carlo
Imperatore la meno insidiosa”.
“Il male minore, intendete?” chiedeva uno dei pochi uomini
che non s’erano ancora stravaccati in terra a riposare.
“Proprio così, il male minore. Ma se non fosse stato eletto
Papa Clemente il trono di Pietro sarebbe andato ai Farnese e indovina un po’
per chi parteggiano loro?”
“Per i francesi”
“Scommessa facile scommessa vinta! Ma c’erano anche i
Colonna, acerrimi nemici dei Medici, dunque di Papa Leone e del nostro Santo
Padre per il quale combatteremo e, chissà, forse anche moriremo in questa
topaia”
“E tutto questo quando avveniva? Non più di quattro anni fa,
sembra passato un secolo, capo”
“Ebbene i Colonna,
dicevamo: furono proprio loro a dar man forte agli imperiali, ai maledetti lanzi”
“Ma cosa è avvenuto? Perché da alleati della Chiesa gli
imperiali ne son divenuti il nemico giurato?”
“Ma perché al nostro Papa piace giocare d’astuzia. È un fine
diplomatico, ha viaggiato, conosce il mondo ma… non tutte le ciambelle riescono
col buco, se si può dir così. In segreto egli aveva mandato emissari a
convincere il Re di Francia a firmare il trattato, per quanto questo fosse mortificante.
E quello, il bel pavone francese, avrebbe sottoscritto qualsiasi cosa pur di
lasciare la prigionia di Madrid”.
Sebastiano, che aveva seguito tutto il discorso in silenzio,
chiese allora al capoposto “Ma i suoi figlioli? Davvero li ha lasciato come
ostaggi?”
“Vero, vero, caro il mio imbrattatele. Francesco sperava di
prendersi una rapida rivincita. È che fanno tutti i conti senza l’oste, verdad?”
“A proposito di oste, forse ci daranno un po’ di acquavite
stasera?” chiese uno dei soldati.
“Non ci conterei troppo, è tutto razionato” rispose il
capoposto con un sospiro.
***
Sebastiano, dal conto suo, a quel punto s’era messo a
disegnare appoggiato a una parete del corridoio. Uomini andavano e venivano, muovendosi
a fatica fra quei cunicoli, impacciati dalle loro armature.
Ma i discorsi proseguivano, mentre degli inservienti
distribuivano il rancio.
“Comprendete allora come il Papa dovesse per forza far
qualcosa… non vedete che gli spagnoli sono dappertutto? Il meridione è loro,
ereditato e amen. A settentrione sono
ormai una forza stabile. Che sorte avrebbe avuto lo Stato della Chiesa? Non capite
che siamo stritolati?”
“Ma il nemico, dopo tutti questi esercizi di fine diplomazia
non è neanche più alle porte, è arrivato fin quaggiù”
“Il nemico, ti dicevo, sono anche i Colonna ed è anche il loro
odio verso i Medici che ha contribuito a creare questa mala bolgia. Chi ha
attaccato il Laterano? Chi ha preso Trastevere e ci assedia? Pompeo Colonna, il
Cardinale, che Iddio lo maledica”
“Se è per quello non fu il Papa stesso a promettere, in
Aracoeli, che egli mai egli si sarebbe nascosto qui in Castello. ‘…che voglio restare accanto al mio popolo,
in mezzo al mio popolo, protetto solo dal mio popolo’? E quel popolo bue
era tutto rincuorato e a questi romani apatici e creduloni era stato promesso da
Renzo da Ceri che sarebbe bastato resistere non più di due o tre giorni e
allora sarebbe giunto il grande eroe a salvar la situazione, a cavar le
castagne dal fuoco, a tirar tutti fuori d’impaccio, Francesco Maria Della
Rovere. Ma alla fine…”
“…alla fine?”
“… alla fine l’unico che si oppose all’orda degli imperiali
fu Giovanni delle Bande Nere, che Dio lo abbia in gloria. E l’eroico Della
Rovere lo stiamo ancora attendendo come i giudei il Messia”.
Sebastiano continuava a disegnare in silenzio. Benvenuto
s’era addormentato e pian piano le chiacchiere dei soldati si facevano più
rade. Qualcuno ormai russava a bocca spalancata, qualcuno s’agitava nel sonno.
Ben presto l’unico suono rimasto era quello della matita del
veneziano che sfrigolava contro il foglio a tracciare un Cristo deposto,
disteso in terra, il corpo apollineo, incorrotto, come solo il Figlio di Dio
poteva mostrare pur dopo gli oltraggi della flagellazione e della morte in
croce.
“E Michelangelo? Dove sei, amico mio?” pensava il pittore,
mentre lo invadeva un’ondata di malinconia.
III.
Quel disegno del Cristo gli era venuto quasi d’istinto, una
replica in piccola scala della grande tavola ad olio che gli era stata
commissionata tempo addietro per la chiesa di San Francesco, a Viterbo.
Quante ore aveva trascorso con Michelangelo, dibattendo
all’infinito la disposizione del Cristo e della Vergine. Alla fine s’era deciso
che il corpo del Salvatore fosse disteso, col solo sudario a proteggerlo dalla
nuda terra.
A differenza della meravigliosa Pietà scolpita dal geniale
scultore toscano la Vergine non avrebbe trattenuto a sé il corpo del figliolo.
“Vorrei che Egli sia rappresentato in orizzontale, disteso,
il capo appena sollevato. Vorrei che il fedele senta il bisogno di avvicinarsi
al Cristo come ci si avvicina ad un altare, con devozione, con rispetto” aveva
detto Sebastiano in uno degli infiniti confronti col Michelangelo.
Insieme avevano impegnato giornate intere a disegnare i
cartoni per la grande tavola. Potevano passare settimane solo per lo studio
delle mani, mani distese e senza vita, la destra a terra, la sinistra sollevata
e poggiata sul fianco.
“La Vergine? Maestro… vorrei che ella recasse nello sguardo
tutta la pena del mondo. Una donna sofferente, disperata, eppure una figura verticale,
che si innalza e ci innalza tutti verso il Cielo”
“Non vi piace la Vergine della mia Pietà?” gli aveva
replicato il toscano.
“La Vostra Vergine è bella, intatta, senza età, sospesa in
un’eterna, purissima giovinezza. Io per questa tavola vorrei una donna addolorata
che rappresenti… ebbene sì… l’angoscia”
“La mani giunte?”
“Giunte sì, ma non come quando si prega. No, unite come
quando si supplica qualcuno in ginocchio. Ecco vedete, Maestro Michelangelo, io
vi scongiuro di aiutarmi con questi cartoni. Come vi appaio in questo istante,
lo vedete? Lo sguardo al cielo, verso l’Onnipotente, verso quel Dio ora tanto
distante”.
Il toscano era sempre preso da mille affanni, cosciente
della propria assoluta superiorità, una mente mai paga, un animo inquieto,
tormentato.
Scomparso precocemente il grande Raffaello egli era rimasto
padrone incontrastato della piazza romana.
“Come sei inafferrabile, Michelangelo fiorentino. Non mi
riesce mai di comprendere dove sia la tua testa” pensava spesso Sebastiano, non
azzardandosi a confidare al suo interlocutore quella sua interiore riflessione.
Più vecchio di lui di una decade il toscano mostrava
un’energia fisica e mentale del tutto sovraumana. Scolpiva, progettava, componeva
musica e versi, dipingeva, ma non per questo s’era mai allontanato dalla
politica.
“Si lamentano di questo Papa Clemente ma solo perché essi non
hanno conosciuto il terribile Giulio” gli disse una volta, e gli occhi gli si
riempivano di malinconia “alla fine era un povero Cristo anche lui” aggiungeva,
mentre col pensiero andava al progetto infinite volte rinviato del monumento
funebre al Papa Della Rovere.
Alle volte mentre disegnava, Michelangelo si metteva a
parlare, senza mai perdere d’occhio il foglio. Ma poi capitava che
s’interrompesse di colpo, lasciasse la cosa a mezz’aria e sparisse, come
inseguendo un’ispirazione che lo portava ad andare altrove.
Sebastiano aveva imparato a conoscerlo, con tutti i suoi
pregi e i suoi difetti. Ne’ temeva, il veneziano, le malelingue.
“Sapete che dicono di Voi, Sebastiano? Che vi tengo con me
per imparare il colore di voi veneti. Che ne dite?” faceva quello, come a
provocarlo.
Sebastiano non cadeva in quei tranelli. Già da tempo aveva
imparato, a sue spese, a districarsi tra le insidie dei palazzi romani.
Ai tempi della sua gioventù veneziana aveva spesso udito di
trame, di tradimenti, di doppi giochi e se ne era tenuto ben alla larga, come
suo padre stesso gli aveva insegnato. Ma qui, sulle sponde del Tevere, scorreva
più veleno che acqua e i peggiori pericoli provenivano spesso dagli amici più
fidati.
Appena arrivato a Roma si accorse, suo malgrado, d’esser
stato messo in competizione col grande Raffaello.
Ecco: di nuovo i ricordi rincorrevano altri ricordi, forse
anche a causa di questa forzata inedia, di questa sorta di prigionia tra le
mura del Castello, di questa infinita, angosciosa attesa di cosa… in fondo?
IV.
Agostino Chigi, il banchiere papale. Era stato proprio lui a
convincerlo a lasciare Venezia e lo aveva fatto con quello sguardo magnetico
che lo aveva reso, negli anni, ricco come Creso e potente, potentissimo.
“Sebastiano” gli aveva detto il suo amico Vincenzo Catena “ma
ti rendi conto di che onore ti sta facendo il Chigi? Non hai visto come lo
hanno accolto qui in Senato? L’han fatto sedere vicino al Doge Loredan,
comprendi? E come si è mosso con l’Avogaria? Nel giro di pochi giorni ha fatto
imprigionare il suo debitore moroso e quello ha dovuto restituire 17.000 ducati
sull’unghia… capisci di chi stiamo parlando? Lo avesse proposto a me sarei già
partito di gran corsa… a Roma, Roma, Roma”.
In effetti il banchiere lo aveva avvicinato lodando i suoi
lavori e dimostrando, senz’ombra di dubbio, di esser dotato di un’ottima competenza
della tecnica pittorica. Nella chiesa di San Bartolomeo si era fatto spiegare
per filo e per segno le portelle dell’organo con i quattro santi.
“Le colonne, le nicchie… bravo Sebastiano… bravo davvero e
bello questo Sinibaldo, questa barba, la conchiglia del camino de Santiago, un santo pellegrino, sapete che da Norimberga
venne fino a Roma…, ma per Voi il tragitto sarà assai più breve, vero?”
E poi il banchiere senese aveva preso a raccontare di quella
villa che stava sorgendo lungo il biondo Tevere ed ampi gesti della mano
descrivevano le meraviglie di quella costruzione, il prato antistante che
andava a declinare verso l’acqua, e poi le scuderie, la peschiera…
“Attendono Voi, quelle volte, quelle logge, attendono il
Vostro estro. Ma non voglio santi né sante, non voglio vergini martirizzate. Un
inno alla vita, un pantheon di eroi
mitologici, una volta celeste piena di astri, e poi piante e frutti d’ogni
parte del mondo e vi ritroverete in Roma, la caput mundi, camminerete per le strade percorse dai Cesari, vedrete,
Sebastiano e con un po’ di fortuna e le amicizie giuste potrete lavorare anche
per il successore di Pietro”.
Il pittore era, a quel punto, assai incerto sul da farsi.
Amava Venezia, quei colori, quei tramonti che riempivano la laguna di riflessi
dorati. Ma il suo amico Zorzi, Giorgione da Castelfranco era morto assai
giovane, il Maestro Giambellino era ormai molto vecchio e poi… come rinunciare
a un’occasione del genere e avere l’occasione di confrontarsi con altri
pittori, con altre scuole, chissà…
Ed ecco che così, aggregato al piccolo corteo del senese,
Sebastiano si era ritrovato a decorare la villa romana del magnifico Agostino. Il committente gli aveva dato carta bianca e
dunque Sebastiano era partito animato da un entusiasmo che lo portò, quasi
senza accorgersene, a lavorare giorno e notte. Prima il Polifemo, poi le
lunette e poi… Raffaello.
V.
“L’unico che può avvicinare il Papa senza destare sospetti è
il veneziano, è lui quello che dobbiamo convincere” disse l’uomo vestito di
scuro.
Il Cardinale si prese del tempo per rispondere. Uccidere un
Pontefice non era affare di poco conto neppure per un uomo risoluto e pronto a
tutto come lui.
“E quale sarebbe la Vostra proposta?”
“Eminenza, ho una persona fidata nel Castello. L’ho istruita
a dovere. Lasciate fare a me, meno dettagli conoscerete, di questa faccenda, e
meglio sarà” rispose quello.
“Ma che per nessuna ragione al mondo si possa risalire a
noi. Non che io, un Colonna, tema qualcuno se non il giudizio divino. Del resto
non ci siamo fatti scrupolo di assaltare le mura della città, di prenderci Laterano
e Trastevere? Manca solo di espugnare Sant’Angelo e frattanto i miei ottomila uomini
continueranno ad esercitare il sacrosanto diritto di saccheggiare tutto”
“E lo sfrutteranno appieno, vedrete. Questi contadini armati
fremono all’idea di portarsi via gioielli, pietre preziose, danaro. Ma la
Vostra vittoria, Cardinale, non sarà completa fin quando il Medici sarà vivo”
“Il pittore veneziano, dunque, sarà il nostro angelo della
morte?”
“Così sarà, Eminenza, così sarà”.
VI.
Annoiato di ascoltare le infinite disquisizioni della
soldataglia, Sebastiano cercava sempre più di sovente rifugio nella propria solitudine.
Lo star solo con sé stesso non gli pesava affatto, piuttosto era tutto quel
viavai di gente gli dava come un senso di oppressione, facendogli mancare l’aria.
In queste lunghe settimane di assedio, in quella forzata
inedia, lontano della sua bottega, un piccolo locale presso Santa Maria del Popolo,
gli scorreva davanti agli occhi un’infinita successione di ricordi.
Si metteva a passeggiare sulle rampe, cercava di affacciarsi
alle logge, ma c’erano guardie in ogni dove.
Tutto gli appariva paradossale, questa relativa sicurezza,
dietro alle mura del Castello, ma nel frattempo quel terribile senso di una
prigionia che pur tuttavia era l’unica alternativa a una sicura morte.
Perfino Benvenuto gli dava la nausea, nonostante lo stimasse
come uomo d’ingegno. Il fiorentino gli aveva mostrato dei bellissimi schizzi,
una riproduzione da Donatello, e poi medaglie, piccoli pezzi d’argento,
gioielli, monete alla maniera di quelle dell’antica Roma. Ma ora la guerra,
questa dannata guerra, lo aveva allontanato dalle nobili arti del disegno,
dell’oreficeria e della scultura. Ora il Cellini sembrava quasi trarre diletto
dal maneggiare quelle terribili armi da fuoco e non faceva che vantarsi della
propria infallibile mira. Fin dal primo giorno dell’assedio il toscano s’era
distinto per lo sprezzo del pericolo.
“Con un solo colpo di questo fedele amico” diceva
accarezzando il suo archibugio, “ho falciato via Carlo di Borbone, Iddio mi è
testimone”.
Più di una volta questa versione dei fatti era stata
contraddetta, ma il fiorentino era stato così determinato e coerente che alla
fine, vera o falsa che fosse, la morte del Connestabile gli fu attribuita in
maniera definitiva.
“Eppure fu proprio la fortuita uccisione del Borbone che
allentò la difesa delle mura, comprendete?” faceva uno dei capi manipolo al
buon Sebastiano.
“Ma come è possibile questo?” replicò il pittore “la morte
del capo degli assalitori avrebbe dovuto demoralizzarli, fermarne la spinta
offensiva”
“Come si vede che siete ben poco pratico di guerra, caro
amico. Tutt’altro. Quando videro portar via su una barella il Borbone,
orrendamente mutilato e sanguinante, i nostri combattenti si fomentarono e si
diedero a levare alte grida di vittoria, come se un colpo ben dato possa
risolvere una guerra. Così per ore i presìdi rimasero scoperti e questo
consentì che le difese fossero più presto sgominate… del resto a questo punto
il danno era fatto e non Renzo da Ceri ma neppure Nostro Signore in Persona” e
qui si segnò “avrebbe potuto frenare il dilagare dei nemici in città”
“Ma il popolo di Roma?”
“Il popolo di Roma, dite… giacché quando ci ritrovammo col nemico
alle porte perfino questi rammolliti si decisero a tentare un minima
resistenza, fosse anche fatta con forconi e manici di ramazza… ma cosa volete che
facesse, il popolo di Roma?”
“Eppure c’ero anch’io quando Renzo dichiarò, in Campidoglio
che Papa Clemente mai si sarebbe rifugiato in Castel Sant’Angelo, che qual
miglior custode della salvezza del vicarius
Christi se non la gente di Roma” replicò a mezza voce Sebastiano.
“Il popolo allora confidava nel Papa, il Papa nell’arrivo
dei soldati della Lega, di quell’infame del Duca d’Urbino e guardate qui come
siamo combinati. Comunque sia occorre dare atto che il Vostro amico Benvenuto è
davvero un eccellente tiratore” concluse l’anziano uomo d’arme.
Era la pura verità: il Cellini aveva dato dimostrazione di
una mira prodigiosa perfino davanti al Papa in persona. Si sporgeva da dietro
uno dei tanti merli mezzi demoliti dai colpi dell’artiglieria leggera e prendeva
la mira con calma olimpica, incurante dei proiettili che gli passavano accanto
con fragore assordante.
Il Santo Padre, nonostante mostrasse un sorriso di
circostanza di fronte a quei gesti di eroica prodezza, comprendeva in cuor suo
che l’assedio doveva finire, e c’erano ben poche speranze che gli assalitori
desistessero… a meno di un miracolo.
Ma Papa Clemente, da buon Papa qual era, a quel tipo di miracoli
non credeva, non credeva affatto.
VII.
Quella sera il buon Benvenuto era particolarmente allegro,
forse anche a causa del barilotto d’acquavite che si era procurato, a suo dire,
in modo non del tutto lecito.
Schiena contro la parete aveva ripreso il tema a lui assai caro
della salamandra che vive nel fuoco.
“Come vi viene in mente, amico mio, che un animale possa
trovarsi a proprio agio tra le fiamme?” lo riprese Sebastiano, ben sapendo che
il toscano difficilmente avrebbe cambiato d’opinione.
“Vi dico per certo che esistono bestie ben strane che vivono
tra le vampe… la fenice, non vi sta bene la fenice?” diceva, mentre si
sciacquava la gola con un generoso sorso di quell’intruglio infernale.
“La fenice, dite? Ma quello è un essere mitologico. E voi,
signore, l’avete vista mai una fenice, suvvia!”
“No, quella mai, ma la salamandra nera, maculata, l’ho vista
con gli occhi miei sgusciar via di sotto a un bel falò e avvolta d’umido come
una rosa di rugiada mattutina”
“Mi diventate poeta, Benvenuto. Ma, a meglio pensare, sapete
che un mio illustre concittadino, tale Marco della famiglia dei Polo, osservò
che un uomo, avvolto d’uno strano mantello bianco riusciva a sopportare un
calore intensissimo che avrebbe stroncato qualsiasi vivente? Ma quell’indumento
era ricoperto d’un minerale che egli, ora che mi rammento, chiamava salamandre…
Perbacco, forse avete ragione voi…”
“Che vi dicevo… oppure forse è tutta un’illusione” gli
rispose Benvenuto, appoggiando le sue grosse mani sulla ruvida parete del
corridoio “non era forse prigioniero quel Polo che dite?”
“Sì, era rinchiuso come noi, prigioniero dei genovesi e
forse era lui, come noi, vittima di una grande allucinazione…chissà” concluse
Sebastiano, e distese il braccio a chiedere un sorso di quella bevanda che
aiutava a rendere più sopportabile la forzata quarantena.
VIII.
Il ritratto del Pontefice che Sebastiano aveva eseguito
appena un anno prima rappresentava un uomo risoluto, lo sguardo quasi sdegnoso,
le guance con un accenno di barba, gli occhi socchiusi, il capo voltato come incurante
di corrispondere allo sguardo di chi stesse ammirando il dipinto.
Le spalle possenti, l’espressione sprezzante, quasi infastidito,
insofferente.
“Maestro Sebastiano” lo aveva chiamato, ridestandolo dalle
sue meditazioni, una fantesca “il Pontefice vi vuole”.
Dunque il veneziano s’era posto a percorrere gli lunghi
corridoi fino alle stanze del Papa, presidiate da armati che lo perquisirono a
fondo prima di lasciarlo entrare.
Il pittore sapeva che Papa Clemente era giù di morale. Come
poteva, d’altronde, essere altrimenti? Ma l’uomo che gli comparve dinnanzi
aveva subìto, in quei terribili giorni, una drammatica metamorfosi.
Invecchiato, stanco, quello sguardo un tempo fiero, tipico
dei Medici, era solo un lontano ricordo. L’uomo si era lasciato crescere una
barba che lo invecchiava di colpo. Il capo scoperto, l’espressione sofferente,
lo sguardo assente, sembrava uno dei penitenti che risalivano la Scala Santa
sulle nude ginocchia.
“Sebastiano, buon amico mio, date un po’ di consolazione a
questa nostra desolazione. Non recate con Voi la Vostra carta, la vostra penna?
Ebbene Vi manderò a chiamare uno dei prossimi giorni e voglio il ritratto della
mia passione, perché questa nostra non è diversa dalla Passione di Nostro
Signore, nevvero?”
La domanda del Pontefice era così intrisa di retorica che il
pittore replicò con un semplice chinare del capo.
“Quando Voi vorrete, Santità, quando Voi vorrete”
“Avreste mai detto che saremmo finiti così, traditi dai
nostri stessi Cardinali, aggrediti da quest’orda di cani rabbiosi, ingannati
financo dall’Imperatore? Ma è Sacro questo suo impero e Romano! Non si stupra
la propria madre, che Iddio lo maledica e se c’è da immolarsi lo faremo, non
cederemo ad altri la Croce che ci fu destinata” e diceva questo con gli occhi che
spargevano sprazzi di malinconia e tristezza.
Il naso diritto contrastava con le occhiaie appesantite
dalla mancanza di sonno. La voce stessa dell’uomo era affaticata, rauca.
Un inserviente si affacciò alla porta dello studio.
“Santità vi è qui il Baglioni che chiede udienza”.
La mano del Papa si alzò come al diffidare chiunque da
interrompere il suo incontro col veneziano.
“Avremo fatto bene ad affidare la difesa delle nostre vite a
questo individuo? Sapete che lo avevo fatto rinchiudere qui al Castello?
Facciamo bene a fidarci di questo ennesimo mercenario? Non fosse morto Giovanni
le cose, lo sa solo Iddio, sarebbero andate in tutt’altro modo, non credete? E
dite qualcosa, per Dio, non statevene lì impalato”
“Santità, sapete di queste materie intendo poco. Me ne sto
coi miei disegni, coi miei pennelli e tanto mi basta, il mio piccolo mondo è
per me già fin troppo vasto” rispose Sebastiano, accennando un timido sorriso.
“Allora se ci tenete ai Vostri pennelli state pronto. Ora
andate e accingiamoci ad ascoltare le ultime sciagure che ci descriverà il
Baglioni. E, Sebastiano, badate a quel Cellini, che ci ha promesso un bel
fermaglio per il Nostro piviale. Che non si faccia accoppare prima d’averlo
completato. Siete tutti pigri e scansafatiche voi artisti. Andate, sparite, andate
via”.
Così che Sebastiano si allontanò non prima di aver baciato
l’anello del Pontefice.
IX.
Quella sera, rientrando presso il suo provvisorio alloggio,
poco più che un’alcova, si voltò d’un tratto perché gli parve d’aver udito un
rumore alle sue spalle.
Con il Castello così sovraffollato era ben raro non
incrociare qualcuno, eppure il cammino fino alla sua stanza gli apparve più
silenzioso del solito. Poi ebbe la sensazione che qualcuno lo stesso seguendo. Sollevò
dunque una delle fiaccole appoggiate alla parete e che illuminava a mala pena il
corridoio avvolto nella penombra.
Nessuno.
Si infilò dunque il quel piccolo stanzino dove vi erano le
poche cose che era riuscito a portare nella sua precipitosa fuga. Solo qualche
cartella con degli schizzi, qualche matita e pochi capi di vestiario.
“Che sarà della mia bottega? I quadri, i disegni, i colori?
Avranno devastato tutto, come si dice in giro?” pensò.
Sedette sul letto. La candela rischiarava quella stanza. Il
contrasto con l’appartamento papale non poteva essere più evidente. Niente
stucchi, niente tappeti, qui. Ma almeno siamo salvi, per ora. E mio figlio
Giulio? Che sarà di lui? Sarà rimasto a Viterbo, come gli avevo tanto
raccomandato? Mio Dio, che non gli venga in testa di mettersi a fare l’eroe.
I pensieri si accavallavano ai pensieri. Si distese cercando
di prendere sonno e guardando il soffitto ripensò alle vòlte che aveva
decorato. Il grigiore del locale lo fece sospirare. Il tempo in cui si
affrescavano le pareti con ninfe, frutti esotici e ghirlande era lontano.
Quasi si vergognava a ripensare con che giovanile baldanza
s’era dato ad decorare le logge della villa Chigi. Si sentiva padrone del mondo,
allora, e la vita che gli si dipanava di fronte era costellata di promesse di
grandi successi.
Quando stava per addormentarsi si accorse che stavano
bussando alla porta. Un tocco leggero, esitante, quasi.
Di certo non si trattava di uno degli armigeri che si
muovevano sempre con irruenza. Si alzò rabbrividendo e socchiuse la porta.
Un viso femminile gli apparve, quasi del tutto nascosto dal
cappuccio di un saio da monaco.
“Fatemi entrare, Vi prego” disse la donna con un filo di
voce.
Sebastiano la fece passare. Quella entrò e, senza fretta,
lasciò cadere la tonica di tela grezza scoprendo il bel corpo nudo.
La ragazza era giovane, di carnagione chiara, o per lo meno
così parve al pittore, alla luce incerta della candela.
I capelli erano raccolti a rivelare un bell’ovale regolare. Gli
occhi, di un nero profondo erano ben evidenziati dal trucco bistrato, il fisico
minuto ma ben modellato, i seni tesi, le cosce ben tornite.
Sebastiano restò incantato a quella vista. Dopo aver visto
per mesi quasi solo soldati quell’immagine di tanta generosa femminilità lo
eccitò nello spirito e nella carne.
“Volete, dunque?” fece quella e, superandolo, si distese sul
giaciglio appoggiando la schiena sulla parete, come fosse una nobile romana
adagiata sul triclinium e subito dopo
sciolse la lunga chioma corvina che le coprì i seni.
Sebastiano esitò un istante ma poi si spogliò e si distese
accanto alla ragazza.
X.
Dopo l’amplesso ella si levò e si rivestì in fretta. Il suo
volto mostrava, a quel punto, un’espressione dura e determinata.
“Ora venite con me, Maestro Sebastiano. Seguitemi”.
Il veneziano, ancora stupito per quel incontro inaspettato,
fu colpito dal tono di voce divenuto d’un tratto più freddo e imperioso. Ciò
nonostante anch’egli si affrettò a rivestirsi e subito prese ad andarle dietro.
Discesero per delle ripidissime scale che la minuscola lampada
ad olio, che la giovane teneva sollevata, a mala pena rischiarava.
Ormai dovevano essere giunti all’altezza delle vecchie
prigioni, ora deserte. I loro occupanti erano stati cacciati via in gran furia
dato che s’era compreso che l’assedio sarebbe durato a lungo ed era dunque necessario
ridurre il più possibile il numero di bocche da sfamare.
Ancora proseguirono per cunicoli strettissimi dove ragni e
bisce fuggivano infastiditi dalla loro inattesa presenza.
Sebastiano aveva il respiro sempre più affannato. Per lui,
abituato alla luce, quell’oscurità era ancor più opprimente e gli sembrava, ad
ogni svolta di quell’angusto pertugio, di doversi imbattere faccia a faccia con
Satana in persona.
Le pareti trasudavano umidità ed essi erano costretti a
procedere a testa china e, in qualche tratto, quasi a carponi. Infine si
trovarono di fronte a una nuova scala che essi presero a salire con cautela e loro
ascesa proseguì per istanti che a Sebastiano sembrarono infiniti.
“Fate attenzione” disse la giovane volgendo per un attimo il
suo volto. Sebastiano fu di nuovo colpito dalla durezza del suo sguardo, così
distante da quella espressione languida che aveva preceduto il loro rapporto.
Sopra di loro vi era come un coperchio circolare che la
donna prese a percuotere con forza. Un suono metallico rimbombò lugubre come
una campana a morto.
Attesero. Dei passi si avvicinarono, prima appena
percepibili e poi più forti. La copertura metallica si aprì con fragore ed essi
poterono scorgere il cielo stellato.
Uscirono dunque nella notte. L’aria era fredda. Due uomini
li aiutarono a cavarsi fuori da quella che Sebastiano comprese essere la
stretta imboccatura di un pozzo.
La luce delle tante fiaccole che illuminavano l’ampio cortile
colpì il pittore e il contrasto con l’oscurità dalla quale essi provenivano fu così
forte che Sebastiano dovette coprirsi gli occhi con la mano.
Altri soldati si unirono e il piccolo drappello, con al
centro il pittore e la misteriosa giovane si avviò verso un imponente portone. Un
uomo di guardia si sporse da uno spioncino e diede loro il via libera solo dopo
essersi accertato che la strada fosse deserta.
Parte seconda – Le strade
dell’inferno
“Nella sacra ruina di Roma (la cui memoria sarà sempre lachrimabile) fatta dai soldati de Carlo V (a cui mi par sacrilegio, solo per questo, attribuire il nome de imperatore), condotti dal ducha di Borbona, il quale, come poco fido al suo natural signore et meno a Idio, fu da una archibusata occiso nella espugnation della muraglia (…)”(Marcello Alberini, I Ricordi)
I.
Quel gruppo prese dunque ad avanzare per i vicoli. Tutt’attorno
non una luce, non una presenza umana. Presto si imbatterono un grosso cane randagio
e Sebastiano si avvide con orrore che l’animale recava, ben stretto tra i denti,
i resti di un braccio. Ciò nonostante nessuno dei suoi accompagnatori mostrò il
benché minimo stupore a quella vista.
Mentre camminavano in silenzio li raggiunse, ad un tratto, un
odore di decomposizione che li obbligò a coprire il naso e la bocca. Davanti a
loro vi era un’alta catasta di corpi putrefatti. Era come se d’improvviso essi
avessero preso a vagare nel più terribile girone dell’inferno, come se i
quattro cavalieri dell’Apocalisse si fossero posti a scorrazzare per piazze e
vicoli, portando pestilenza e morte dalle catapecchie più misere ai palazzi più
signorili.
Ovunque carri schiantati, porte divelte, finestre in
frantumi, fumo. Così era ridotto Borgo.
Da una piccola chiesa un bagliore di candele illuminava un
gruppo di soldati accovacciati attorno a un fuoco. Al centro della navata vi
era un grosso cavallo che si alimentava da un mucchio di biada.
Frattanto la misteriosa giovane procedeva spedita come se
avesse in mente un preciso itinerario. La mole del Castello fu aggirata,
lasciando il fiume alle spalle e ad un tratto attraversarono gli archi sotto il
Passetto.
Lì dove le case erano ancora più accatastate l’una
sull’altra, l’orrore appariva ancora più intenso.
Taverne vuote, botteghe devastate, alle volte figure
dall’andare incerto emergevano da quell’opprimente oscurità e poi, alla vista
del drappello armato, tornavano a nascondersi in fretta.
Ad un tratto di lontano si sentì un timido scampanellio al
cui suono il capo del piccolo gruppo fece un gesto della mano, indicando senza
esitazione un cortile dove appartarsi. Dal piccolo arco d’ingresso essi ben
presto videro sfilare lungo la strada un gruppo di becchini che allertavano,
con quei campanelli legati alle caviglie, del loro passaggio.
Dietro di loro, trascinato da cavalli ridotti a scheletri,
un carro traboccante di corpi senza vita.
A debita distanza si misero dunque a seguire quel mesto
corteo che si interruppe solo quando, giunti al ponte più prossimo al Castello,
i resti di quegli sventurati furono scaricati senza troppe cerimonie nel fiume
sottostante.
II.
Io questa scena l’ho
vista, rappresentata dal grande Albrecht, con i quattro terribili figuri che
dispensano fame, guerra, conquista e morte e che calpestano poveri e ricchi
senza pietà lasciandosi alle spalle una spianata di lutti e di desolazione.
Spero di destarmi da
questo terribile incubo anche perché questo freddo mi sta entrando fin dentro
le ossa. Allora mi sveglierò e penserò che è stato tutto un gioco della mia
mente. Allora mi sveglierò e proverò a disegnare a memoria quel carro, quei
corpi disarticolati. L’orrore, l’orrore riportato a sanguigna forse scivolerà
sulla carta bianca e un po’ diluirà tutto questo male che mi infetta il sangue.
***
Ma quella camminata notturna non accennava a finire. Quel
vagare senza comprendere se vi fosse o meno una meta tra quelle strade che
Sebastiano conosceva bene, visti i lunghi anni trascorsi presso l’Urbe, gli
mise addosso un’ansietà che quasi gli toglieva il respiro.
Eppure ad un tratto egli si avvide che stavano riprendendo
il cammino del ritorno, verso quel misterioso cortile, verso quel pozzo che li
aveva come sputati fuori dalle viscere oscure della terra.
Di nuovo il coperchio fu sollevato, di nuovo la giovane lo
precedette in quel cunicolo sotterraneo che ella sembrava conoscere a menadito.
Ancora ripercorsero quel labirinto popolati di ombre e
infine risalirono per quella scala a chiocciola (ma era la stessa?) e si
ritrovarono nella piccola stanza di Sebastiano.
III.
“Avete visto abbastanza, Maestro? Le sofferenze del popolo
innocente, delle donne violentate, dei bambini divorati dai cani? Vi è bastato
lo spettacolo? Ebbene, ora guardate nel fondo della Vostra anima. Voi avete la
possibilità che tutto questo orrore si concluda in pochi istanti” disse la giovane,
pronunciando quelle parole con una freddezza che ancor di più raggelò il sangue
del pittore.
Il tono della voce era deciso, senza un filo di incertezza.
La parlata della donna aveva qualche inflessione popolare, ma il suo sguardo era
quello di una regina il cui dettato non ammette replica.
Sebastiano la guardava senza fiatare, aspettando che quella
giovane si trasformasse, da un momento all’altro, in un diavolo dell’inferno, che
quei piedini delicati mutassero d’aspetto per prendere le sembianze dello
zoccolo e che l’odore dello zolfo infestasse la minuscola stanza.
Guardandolo fisso negli occhi la giovane sfilò una minuscola
ampolla da una tasca del saio.
“Versatene il contenuto in un calice di vino. Papa Clemente
ama consolarsi dalle sconfitte abbracciandosi a Bacco. Egli morirà e il giorno
appresso tutto sarà finito. I lanzi
si ritireranno, la Città sarà liberata, i cadaveri sepolti cristianamente.
Tagliate la testa dell’idra, Sebastiano. Avrete molto di meglio del mio corpo,
credetemi. E non dimenticate che per ogni giorno che indugerete la peste e i
saccheggi mieteranno nuove morti e un po’ di questa colpa, ora lo sapete bene,
sarà anche Vostra”.
Pronunciate queste ultime parole la ragazza si dileguò,
scomparendo dietro la porta.
IV.
Ma perché io? Come sono
arrivati a me, con questa proposta, con questo ignobile ricatto? E chi sono io,
dunque, per decidere chi vive e chi muore? Posso mettermi a giocare a far l’Onnipotente?
D’altro canto mio Dio
quanta desolazione, quanta morte per queste strade. Quando finirà tutto questo?
Signore benedetto, indicami tu il cammino…
Sebastiano trascorse in uno stato allucinato quel che
restava della notte. Si guardava i palmi delle mani, osservava il suo viso nel
piccolo specchio.
Sta succedendo a me?
Guardava e riguardava controluce la piccola ampolla, tentato
quasi di inghiottirne lui stesso il contenuto e abbandonare per sempre quella
valle di lacrime.
Poi, come colto da un’intuizione provò a ripercorrere quel
medesimo cammino che li aveva portati fuori dal Castello, ma invano.
I corridoi sembravano tutti uguali ma dov’era dunque quella postièrla
che conduceva al camminamento lungo e tortuoso da loro seguito solo qualche ora
prima?
Dalle celle vuote delle prigioni quella via misteriosa
sembrava scomparsa. Ma del fatto che di un sogno non si fosse trattato
Sebastiano traeva la certezza rigirando tra le dita la piccola boccetta.
Ancora vagò per delle ore senza risultato nella speranza di
incontrare di nuovo quella misteriosa donna. Forse a mente fredda avrebbe
potuto farle qualche domanda. La sua era una vendetta personale contro il Papa
o dietro si celavano ragioni più profonde?
E cosa avrebbe fatto, se pure avesse trovato quell’apertura?
Si sarebbe avventurato in quel dedalo sotterraneo?
Forse poteva chiedere a Benvenuto di accompagnarlo. Se
avessero compreso in quale palazzo si trovava l’imboccatura del pozzo avrebbero
dato un nome al mandante di quel delitto.
Uccidere il Papa.
Frustrato e stanco Sebastiano fece ritorno all’alloggio e,
non appena si distese sul giaciglio fu colto da un tremore.
Ecco, questa passeggiata nell’orrore mi ha portato ad
ammalarmi. Forse sono io stesso il cavaliere che diffonderà la peste presso il
Castello e non occorrerà neppure avvelenare il Pontefice.
Si vide cadavere tra i cadaveri, finito su uno di quei
carretti che trasportavano il loro lugubre carico per scaricarlo in Tevere.
La fronte bruciava e respirava a fatica ma infine fu colto
da un sonno pietoso e sognò.
Era su una piccola barca, con suo padre che remava. Il sole
tramontava e tutt’intorno c’era un senso di pace. I remi scivolavano nell’acqua
quasi senza rumore. Il piccolo Sebastiano guardava ammirato quel padre suo che si
muoveva con sicurezza tra le piccole isole della laguna veneziana.
È il Paradiso, questo? Era il Paradiso, quello, padre mio?
Lo ridestarono due inservienti che lo scuotevano con certa
veemenza.
“Maestro Sebastiano, il Papa vi richiede” gli fece uno. Ma
l’altro guardandolo bene in viso disse al suo compare “Questo pare abbia visto
la morte in persona, guarda che brutta cera ha in volto. Ci fidiamo a portarlo
negli appartamenti? Non sarà ammalato?”
“Ma cosa vuoi che sia ammalato, questo qui si è divertito
con una donna” gli fece l’altro ridendo, e indicò un fazzoletto ricamato caduto
in terra “suvvia Maestro, non facciamo aspettare il Papa”.
Così che il pittore fece appena a tempo a rinfrescarsi il viso
con l’acqua del catino e, tremante di freddo e di paura, ripensando alla
terribile notte trascorsa, afferrò l’occorrente per disegnare e cacciò tutto
nell’ampia borsa di cuoio che recava sempre con sé.
Uscirono dunque, ma poi al pittore venne come un’intuizione
e, rientrando nella stanza, afferrò l’ampolla e la infilò una tasca della
giubba.
V.
I due inservienti lo condussero presso gli appartamenti del
Pontefice ma Sebastiano rimase per un istante interdetto quando non fu
introdotto nello lo studio privato ma nell’ampio vano rettangolare che fungeva
da bagno.
Pur se l’ambiente era avvolto dal vapore il veneziano non
poté fare a meno di riconoscere, nelle decorazioni delle pareti e dei soffitti,
la felice mano del suo amico Giovanni da Udine.
Quegli stucchi, quei puttini, quei giri d’acanto, quel gusto
che sembrava riportare alla lontana gloria delle terme romane… per un istante
Sebastiano rivide sé stesso e il suo amico affaccendati presso la villa di
Agostino Chigi.
Subito lo assalì un’improvvisa nostalgia per quel tempo in
fondo non troppo distante ma che, alla luce di tutti i drammatici fatti che
erano accaduti, sembrava risalire a mille anni prima.
Il Pontefice era immerso in una grande vasca. Gli occhi
chiusi, egli mormorava frasi a mezza bocca come se stesse pregando.
Sebastiano, in evidente imbarazzo, non sapeva se attendere un
comando esplicito prima di avvicinarglisi.
“Cosa dobbiamo fare? Voi lo sapete?” mormorò l’uomo sollevando
il viso e rivolgendosi a lui, e il pittore dovette farsi più dappresso per
riuscire a intendere con chiarezza quelle parole.
“Dobbiamo dunque arrenderci? È questo che ci indicano i
consiglieri. Arrenderci. Il Vicario di Cristo finito in prigionia, come un
ladrone. Oppure dobbiamo resistere ancora? La Città è stremata, le religiose
violentate, la nostra Basilica ridotta a una stalla, carri trasportano
ostensori e patene sottratte alle nostre chiese, tombe sono profanate… è
l’Apocalisse, questa?” diceva quello, ma sembrava rivolgersi a sé stesso più
che al suo interlocutore.
In silenzio, Sebastiano seguitava a restare in piedi,
rigido, senza sapere come comportarsi. Il luogo era caldissimo giacché da una
bronzea Venere nuda scaturiva un getto d’acqua fumante che riscaldava la vasca.
Ma ad interrompere quel silenzio fu uno degli inservienti
che si avvicinò al bordo della vasca. Nonostante parlasse a bassissima voce
Sebastiano percepì chiaramente che il Cardinale Armellini, uno degli alti
prelati che avevano trovato rifugio nel Castello, era appena spirato.
Di nuovo il Papa parlò.
“Che poi è anche colpa sua se la Città cadde. Tanto scaltro
negli affari quel Francesco ma sapete che mi dissero? Dico a Voi, Sebastiano!
Che da un tratto delle mura presso porta Terrione penetrarono gli infami lanzi. E sapete perché? Perché il
defunto Cardinale, che Iddio lo prenda a frustate, aveva fatto erigere una
casetta abusiva nel suo orto e da quella finestrella mal mimetizzata si
infiltrarono quelli, come topi di fogna. Maledetti, maledetti tutti” prese a
dire, il tono della voce fattosi d’improvviso assai più duro, lo sguardo pieno
d’odio.
A quel punto Sebastiano, come guidato da una mano divina, si
mise in ginocchio e guardò il Pontefice dritto negli occhi.
“Vi supplico, Santità, Vi scongiuro di far cessare questa
strage di innocenti. Solo Voi potete farlo, solo Voi avete questo potere” e improvvise
lacrime scesero dal suo viso.
Il Papa lo guardò sorpreso, poi con una mano si coprì gli
occhi.
“Vi accompagnerò,
Santità, non Vi lascerò un istante se me lo permetterete ma Roma, Roma sta
sanguinando e non possiamo restare inerti di fronte a questa distruzione”
“Vi ho chiamato per il ritratto, Luciani, non per ascoltare la
Vostra implorazione” replicò il Pontefice spazientito, ma poi subito, come
pentito d’aver usato un tono tanto brusco di fronte a quel dolore sincero,
riprese a parlare in modo più pacato.
“Sì, avete ragione, amico mio, non si può costringere la
Città Santa a questo infinito supplizio. Non è giusto che il cuore della
cristianità soffra queste pene infernali”.
Di nuovo un inserviente si avvicinò con discrezione.
“Santità vi è di nuovo il Baglioni che viene a riferire”
“Fatelo passare” fece il Papa.
A quel punto Sebastiano fece per ritirarsi ma il Pontefice
lo invitò a restare.
L’espressione dell’uomo d’armi, mentre fece il suo ingresso
nel locale, era seria.
“Santità, posso parlare?” chiese accennando al pittore.
“Il Luciani è persona fidata, altrimenti credete sarebbe
qui?”
“Ebbene, Santità, abbiamo resistito per mesi all’assedio.
Ora dobbiamo per forza cedere, ma la cifra pattuita per la ritirata dei nostri
nemici non è così elevata. Anche essi sono decimati dalla peste e ormai hanno
saccheggiato tutto il possibile. Se firmerete l’accordo sarete tenuto in
ostaggio fuori dal Castello fin quando tutta l’importo sarà stata versato. Ma
Vi garantisco con la mia vita che non Vi sarà torto un capello. Anche i nostri
avversari sono stanchi e molti hanno già ripreso la via di casa”
“Di nuovo, Santità” fece ancora il pittore, quasi stupito
del suo stesso ardire “Vi supplico di ascoltare se non le mie umili parole
quelle del Vs. Comandante”.
Il silenzio calò tra i tre uomini e rimase solo il rumore
dell’acqua che si infrangeva pigramente sui bordi della vasca.
VI.
“Il Cardinale Armellini è crepato? Spero sia spedito di gran
galoppo all’inferno, caro il mio veneziano. Buono solo a tassare il popolo,
sapete? Mise perfino un’imposta sui tordi importati nell’Urbe, capite? Sui
tordi! E fu lui, avido vecchiaccio, che mise in testa a Papa Clemente l’idea malsana
che si potevano risparmiare migliaia di scudi congedando le milizie che
difendevano l’Urbe dato che egli in persona garantiva sull’intangibilità delle sacre
mura” si sfogava un capo drappello.
Ormai Sebastiano li conosceva tutti uno per uno quei soldati
e loro conoscevano lui e sapevano che era un buon ascoltatore dei loro sfoghi.
E un altro riprendeva “Pensate che di fronte a costui
perfino il Cardinale Colonna, infame e traditore, si meritò la mia stima,
quando pronunziò in faccia a tutti che l’Armellini andava scorticato vivo e la
sua pelle portata in giro per tutto l’intero Stato pontificio!”.
Ossia che l’encomio funebre era stato pronunciato, venuto
dal cuore stesso di quella soldataglia ormai debilitata, affamata, stanca,
sudicia, desiderosa solo di fuggire da quella prigionia per riprendersi di
nuovo una vita o di quello che della vita restava.
Parte terza – La resa
“…poi che non sono atti questi indegni preti a guerreggiare, et non possano fare senza i mercenarìi soldati, doverebbono con più giudicio governarsi et non se intromettere nelle parzialitati et odii delli principi cristiani se non in bene et santa concordia.” (Marcello Alberini, Narrazione o diario del saccheggio di Roma del 1527)
I.
“Doveva pur finire così” mormorava uno dei soldati,
sconsolato, a un suo commilitone.
Si dice così: che la sconfitta è silenziosa mentre la
vittoria è dotata di voce stentorea. Sicché quegli uomini, dopo mesi di
resistenza, stremati dalla fatica, decimati dalle poche bocche da fuoco che gli
assedianti possedevano ma che non per questo risultavano meno micidiali, contavano
con impazienza le ore e i minuti che mancavano alla resa.
“Si sapeva che prima o poi questo altalenare di alleanze
avrebbe condotto a questa umiliazione; non si può stare e un giorno con i
francesi e quello appresso con gli spagnoli” questo si diceva tra le mura della
Mole.
Ormai la fine dell’assedio era questione di poco e
Sebastiano tirava un sospiro di sollievo.
Che fine avrebbe fatto Papa Clemente nessuno lo sapeva, ma
di certo non sarebbe stato gettato nella cella oscura di qualche prigione. Si
parlava di quattrocentomila scudi da versare affinché gli assedianti
abbandonassero per sempre l’Urbe. Ma questa cifra, enorme financo per le casse
del Papa, non era disponibile se non per un quarto e dunque il Pontefice,
lasciato il Castello, sarebbe rimasto in custodia,
assieme ad altri prelati, in un palazzo non distante dalla Basilica.
“Peggio di così? Poteva andar peggio di così? Io non mi
sarei arreso mai” si sfogava Benvenuto, ma anch’egli sapeva, in cuor suo, che
le sue erano parole vane, fanfaronate.
Ormai in Castello le scorte di cibo erano esaurite, non
c’era legna per scaldarsi, non si sapeva neppure dove seppellire i tanti morti,
uccisi dal fuoco nemico o dalle malattie.
Le quasi tremila anime che avevano convissuto forzatamente
per mesi e mesi tra quelle possenti mura potevano ora tentare di riacquistare
la loro libertà, ma a caro prezzo!
“Che credevate, che avrebbero liberato tutti questi nobili e
prelati gratis et amore Dei? Questi
luterani non sanno neppure chi è Domineddio” continuava a lamentarsi Benvenuto
ma altri del corpo di guardia lo smentivano.
“Cosa andate bofonchiando? Quella specie di esercito
radunato dal quel cane traditore del Cardinale Pompeo Colonna era forse
composto da eretici? No, caro il mio fiorentino, avete una buona mira e ne
abbiamo viste di Vostre imprese in questi mesi, Ve ne diamo atto… ma in quanto
alla politica fareste meglio a tacere. Piuttosto il nostro Pontefice è stato…
ebbene sì… ingenuo. I nemici sono fuori della Chiesa ma anche e soprattutto
dentro, del resto il Cardinal Colonna non aveva forse organizzato un complotto già
sotto Papa Giulio regnante? Come si dice il lupo perde il pelo ma non il
vizio”.
“E pure il Colonna forse non è così infame come lo si
dipinge. Io posso dirvi che giorni addietro, quando incontrò il Papa durante le
trattive per la resa, egli prese a piangere al pensiero delle sciagure
procurate alla Città e chiese perdono” diceva uno degli uomini della guardia.
“E il Papa? Cosa disse il Papa?” gli chiese il suo
interlocutore.
“Pianse anche lui, ammettendo i propri errori. Questo ho
visto io con gli occhi miei, liberi voi di credermi”.
Ma un altro luogotenente portava ancora altri argomenti.
“Sapete, a migliaia sono arrivati i contadini dai feudi colonnesi.
Hanno finito di saccheggiare il poco che rimaneva… altro che luterani e per
dirla tutta, quel Carlo Imperatore è forse luterano? Cattolicissimo e romano si definisce!”
“Ma è lui che ci ha scatenato contro i lanzi, Ve ne siete scordato?” faceva un altro.
Così si andava avanti, a ragionare e litigare e parlare e
replicare, tutto questo in attesa che il ponte levatoio fosse abbassato e
finalmente si potesse tornare alla libertà.
II.
Ma la vita di un tempo non sarebbe mai stata la stessa,
pensava Sebastiano. Dopo gli orrori che aveva visto la prospettiva di riaffacciarsi
alla luce del sole non gli appariva così rosea come agli altri prigionieri del Castello.
Soltanto un desiderio aveva, rientrare alla sua bottega per accertarsi
dei danni provocati dall’orda degli invasori. Che ne era stato dei suoi cartoni,
delle lastre d’ardesia, dei pennelli, dei colori? Che spettacolo lo attendeva?
Ma questo pensiero, a meglio riflettere, gli appariva
meschino quando ripensava a tutte le tragedie che aveva visto abbattersi attorno
a lui.
Per settimane, per mesi aveva intravvisto, al riparo dei
torrioni, incendi e devastazioni, ma fino a quella notte, fin quando non aveva calcato
quelle strade straziate, fin quando gli effluvi della morte non gli avevano
tolto il fiato, fin quando i suoi occhi non erano stati raggiunti dall’acre
fumo, ebbene fino ad allora egli era aveva vissuto quel dramma a distanza di
sicurezza, come le divinità del Parnaso assistono, dall’alto, alle vicende
umane.
No, Sebastiano mio, diceva a sé stesso, nulla sarebbe stato
come prima.
III.
Mali fuere Germani, peiores Itali, Hispani vero pessimi (Kilian Leib, Historiarum sui temporis ab anno 1524 usque ad annum 1548 Annales)
Nella Città si assisteva alle ultime scaramucce tra drappelli
di soldati che prendevano la via del ritorno e quelle milizie fedeli al Papa che
si erano andate riformando dopo quei drammatici mesi.
Ad uno di questi combattimenti assistette il buon Sebastiano
e ancora una volta l’uomo ebbe l’impressione che la ferocia e la cattiveria
degli uomini fossero come un ininterrotto ed infinito torrente di mefitica lava.
Negli ultimi tempi quelle soldataglie imperiali, stanche di spadroneggiare
per l’Urbe in lungo e largo, avevano preso ad imbarcarsi su grosse chiatte dalle
parti di Ripa e queste erano cariche di tutto quel che era possibile rubare:
monete, gioielli, perfino ostensori, patene ed altri oggetti religiosi. Ma
oltre agli oggetti di valore venivano issati a bordo anche tutti i feriti che
era possibile trasportare.
Mentre le operazioni di carico proseguivano senza fretta capitò
che di quegli sgherri comandati da Napoleone Orsini, che già s’erano distinti
per le stragi di quei drappelli di lanzi
che s’erano ritrovati improvvidamente isolati fuori delle Mura, si avvidero di
quanto il momento fosse propizio per attaccare i propri nemici.
Lo scontro fu breve ma provocò una vera strage tra spagnoli
e tedeschi. Nessuno scampò a quelle furie che non si fermarono fin quando anche
l’ultimo degli avversari non fu trucidato. Le due grosse imbarcazioni furono
sequestrate e tutti quei beni divennero bottino dei vincitori, che già nei
giorni precedenti avevano saccheggiato le case dei giudei, ben sapendo che
nessuna autorità li avrebbe perseguiti.
Ma se questi soldati si attendevano un’ovazione di giubilo da
parte dei cittadini di Roma, essi erano in grave errore.
“Queste bravate rischiano di rallentare l’esodo degli
occupanti. Chi ci garantisce che gli spagnoli non decidano di tornare in forze
per vendicare questi caduti?” questo si diceva in un’hostaria, dove i tanti avventori avevano assistito a quell’ennesima
carneficina.
Ovunque si parlava di vendette, di rese dei conti. Molte
famiglie vicine ai Colonna erano state oggetto di violenze e di saccheggi.
“Si tornerà mai alla normalità? A poter camminare per le
strade senza imbattersi a ogni piè sospinto in queste squadre di assassini?”
chiedeva il pittore.
Ma nessuno gli rispondeva più, tutti ormai contagiati da
quel cinismo che rende i cuori più duri della pietra.
Nelle settimane successive, però, poco a poco anche le
ultime ostilità cessarono e un minimo di ordine venne ristabilito.
“Ma la cosa curiosa, amico mio” gli faceva Benvenuto “e che
ora tutti i potenti giocano a fare gli indignati. Che la Città Eterna non doveva
divenire un campo di battaglia, con tutti questi scempi, distruzioni ed
assassinii. Che occorreva mostrare rispetto per il Papa e i Cardinali. Che
neppure Attila, che neppure Totila. Insomma, amico mio, come è comune uso e
costume ciascuno addossa le colpe sul groppone degli altri, questa è la morale
della favola”.
IV.
E quella misteriosa donna? Che fine aveva fatto, si
domandava Sebastiano. Alle volte, ripensando a quei fatti singolari, aveva
quasi l’impressione che tutta quella vicenda fosse come una sorta di delirio,
un frutto della sua immaginazione troppo a lungo segregata in Castello.
Del resto era pur comprensibile, tutti quei mesi di forzata
clausura, quei corridoi così opprimenti, quelle fiaccole con la loro lugubre ed
incerta luce, e quel continuo fragore degli scambi di colpi di artiglieria.
Eppure Sebastiano sapeva che quella donna, che gli si era
concessa in circostanze così oscure e che lo aveva trascinato in
quell’avventura notturna, esisteva davvero, aveva camminato per quelle strade,
respirato l’aria di quei vicoli, proiettato un’ombra su quei muri.
Guardava e riguardava quell’ampolla fin quando decise di
disfarsene e pensò che solo il fiume poteva custodire quel suo segreto. Uscì
dunque dalla sua bottega e si diresse verso il ponte più vicino.
Giunto lì la scagliò lontano ma proprio mentre seguiva la
parabola del minuscolo flacone di vetro si avvide che presso la riva
sottostante s’era formato un piccolo assembramento.
Discese con cautela l’erto pendio che conduceva all’acqua fin
quando raggiunse il gruppo degli astanti. Un corpo, rimasto impigliato tra i
canneti, veniva riportato all’asciutto.
“È una donna” disse uno dei barcaioli mentre intorno a lui
gli altri si segnavano.
Che fosse lei? Sebastiano si avvicinò, col cuore che prese a
battergli forte in petto, ma non gli riuscì di riconoscere quel volto,
sfigurato dalla permanenza nell’acqua. Neppure il vestito della sfortunata,
lacerato in più punti, gli diede elementi per identificarla con sicurezza.
“È stata pugnalata, guardate qui” fece uno che si era
inginocchiato acconto a quel povero corpo.
Frattanto erano giunti dei soldati che si incaricarono di rimuovere
il corpo della sventurata. Un prete, chiamato in fretta e furia da una vicina
chiesa, benedì quei miseri resti.
“Dove la porteranno?” chiese il pittore.
“Se nessuno la reclama questa sera stessa finirà nella fossa
comune a Testaccio. Ma perché lo domandate? Credete di riconoscerla?” gli
rispose la guardia che comandava il piccolo drappello.
Il veneziano continuò a guardare ma in tutta onestà non
seppe dare alcuna risposta certa. Ma poi, rifletté, anche se avesse
identificato in quel corpo straziato la donna di quella misteriosa notte cosa
avrebbe potuto dire al riguardo?
Con un cenno negativo del capo egli si allontanò da riva e
mestamente riprese la via di casa.
V.
Io rifuggivo da quel
tempo di guerra, io che non ho mai ambìto a vittorie alate e trionfi. Il lavoro
mio mi assorbiva per intero e se mi avessero dato anche pochi scudi l’anno me
ne sarei stato con i miei pennelli e le matite a frugare tra le umane miserie per
trarvi anche solo una scintilla di quella bellezza che scorre eterna come la
luce.
Ecco perché il Cristo straziato,
il Figlio di Dio Onnipotente, non poteva essere mostrato guasto nelle carni pur
se i suoi aguzzini sudano e bestemmiano e si affannano a menar frustate a piene
mani. Egli rimane intatto di una purezza che nessuna divinità dell’Olimpo potrà
mai eguagliare.
***
Ma per quanto Sebastiano tentasse di tornare alla vita d’un
tempo c’era, a circondarlo, la desolazione della sacra ruina, come ora era stata ribattezzata l’Urbe, e ogni pietra,
ogni angolo di strada, vicolo o piazza sembravano gemere di dolore.
Come dopo una tempesta quando le acque, dopo aver flagellato
un porto o un’isola, con oziosa lentezza si ritirano, per disvelare poco a poco
la scia di distruzione che esse stesse hanno generato, così gli invasori, italiani,
spagnoli, tedeschi o lanzi che
fossero se ne andavano poco alla volta, ma non prima di aver riscosso le taglie
dei loro prigionieri.
E non sempre le prede erano tanto facoltose oppure, pur se
benestanti, non disponevano di liquidi sufficienti a pagare il loro riscatto.
Taluni lasciavano i propri figli in ostaggio per affrettarsi
a vendere un terreno, una casupola, una bottega e spuntavano prezzi risibili ma
tant’è.
Del resto per chi ci rimette in un affare c’è sempre quello
che al contrario ci guadagna e l’occasione non fa l’uomo ladro ma spesso, ahimè
molto spesso, lo rende avido fino all’ingordigia.
In effetti si faceva sempre più evidente come oltre alle
perdite materiali quella terribile successione di eventi avesse messo in mostra
l’intero campionario delle umane bassezze.
Fratelli avevano tradito i propri fratelli, amici i propri
amici o si era scoperto che per salvare dal saccheggio i propri palazzi taluni
s’erano adoperati d’impegno nel mestiere odioso della delazione.
D’improvviso tutti si erano rivelati alleati e sodali da
sempre et usque in aeternum degli
imperiali, ma questo non bastò a risparmiare a molti di loro la prigionia o la
morte.
“E se il riscatto non viene saldato nel termine pattuito il
malcapitato finisce decollato” si sentiva dire spesso nelle piazze. In effetti
dalle tante prigioni improvvisate in Trastevere s’era vista ruzzolare, più di
una volta, qualche testa e queste esecuzioni sommarie servivano a convincere
chi si provava a prender tempo a pagare hic
et nunc quanto pattuito.
VI.
Ma la nuova che tanto clamore fece nella città devastata,
che rimbalzò per tutte le strade dell’Urbe, era che dopo pochi giorni di
custodia Papa Clemente era riuscito a fuggire.
Le voci più insistenti riferivano che era stato Rodomonte
Gonzaga in persona, al capo di un drappello di cavalieri e archibugieri, a dar l’assalto
al palazzo dove il Pontefice era custodito.
“Da ortolano, il Papa è stato camuffato da ortolano, ve lo
immaginate, per non dare nell’occhio e così conciato ha passato senza affanni i
controlli a Porta Salaria ed è sparito” gli raccontava Benvenuto guardandosi
attorno.
“Il Gonzaga? Ma non era proprio lui fra quei comandanti imperiali
che diedero l’assalto a Porta Settimiana e per primi irruppero in Trastevere?”
chiese Sebastiano.
“Amico mio, qui a Roma le strade non sono mai tanto dritte,
non te ne sei ancora avveduto? Si torcono e si contorcono come il fiume Tevere.
Ora accade che il Rodomonte nel mentre ci assediava venne a sapere che tra
tutta l’umanità varia asserragliata in Castello vi era anche suo fratello
Pirro, che a differenza sua aveva scelto la carriera ecclesiastica. Ecco allora
che il prode uomo d’armi si adoperò in tutto e per tutto affinché l’assedio si
concludesse al più presto e senza ulteriori spargimenti di sangue”
“E dunque? Cosa succede?”
“Succede che Rodomonte ricevette l’assenso dall’imperatore
in persona a stabilire una capitolazione incruenta ma nel contempo ottenne dal
Papa una promessa affinché Pirro venisse creato Cardinale. Ma son certo che
Papa Clemente gli avrà richiesto sottobanco anche il favore di accorciare i
tempi della prigionia in Prati. Ed ecco spiegate le ragioni di questo coup de main. Ed ora il Papa è stato
scortato in sicurezza ad Orvieto e di certo questa fuga ridurrà o addirittura
azzererà il saldo riscatto. Per San Giovanni Battista patrono, ma debbo
spiegarti proprio tutti, venexian!”
concluse Benvenuto con una delle sue contagiose risate.
Sebastiano lo aveva guardato per un attimo, sospirando come
a dire non è colpa mia se di queste cose non mi intendo.
***
Rientrato nel proprio studio che per puro miracolo era sfuggito
alle razzie Sebastiano si adoperò nei giorni successivi a ripulire il locale
dalla polvere e dalle ragnatele che si erano accumulate.
Ma in fondo, s’era detto in cuor suo, dopo aver spalancato
l’uscio, poteva esser andata molto peggio.
“Maestro Sebastiano, sursum
corda! Cos’è quest’espressione di tristezza? Siamo vivi, siamo scampati da
morte certa, ci siamo quasi divertiti” continuava il vigoroso fiorentino
cercando di dare un po’ di animo al suo amico.
Ma una silenziosa melanconia aveva afferrato il veneziano, quella
che tanto bene conosce chi è uso a veder spegnersi il sole in un pianissimo tra i riflessi dorati della
laguna.
Scorgendo un liuto poggiato in un angolo Benvenuto lo
afferrò e tosto prese ad accordarlo con una delicatezza che sorprese
Sebastiano. Quando l’affinatura fu completata quello gli passò lo strumento
“Suvvia, cantatemi qualcosa, rallegriamoci gli animi e guardate che ho qui con me
un regalo che ci farà piacere degustare”.
Sebastiano rimase colpito da quella richiesta. Prese lo
strumento in mano e si provò a muover le dita per scaldarle e quella scena lo
riportò a Venezia, quando con Zorzi, il suo grande amico pittore e musico,
improvvisavano vere sfide musicali nelle grandiose feste che si tenevano, di
volta in volta, nei più prestigiosi palazzi della Serenissima.
Ora egli era solo e quella felicità d’un tempo, quel cantare
pensando a una donna amata gli sembrava fuori luogo, come se il tempo avesse
consumato quel desiderio vitale, quell’energia che fa spuntare i fili d’erba,
quell’amore che muove il sole e le stelle.
Trasse qualche nota, qualche timido accordo che risuonò tra
le pareti di quella piccola stanza e Benvenuto sedette su uno sgabello ad
ascoltarlo, incantato da quei suoni struggenti.
Con gli occhi chiusi Sebastiano vedeva passare davanti a sé passioni
lontane, volti di dolci fanciulle con le quali tante liete ore erano trascorse,
nell’intimità di quelle barche cullate dalla corrente.
Un fiasco di vino, della frutta, delle gallette dolci, quei
corpi che si stringevano in languidi abbracci senza ombre, senza incertezze,
quando la giovinezza appare, ai fortunati, come un’arcadia senza tempo,
un’infinita successione di giorni e di spensieratezza.
“Ma ora, dopo tutto questo, come potremo ancora cantare?”
disse a un tratto, interrompendo quella bella progressione di note “Come
potremo tornare a vivere? Hai visto la scritta sui freschi di Villa Chigi? Mi hanno detto che significa qualcosa come
“Perché io che scrivo non dovrei ridere?
I lanzichenecchi han fatto correre il Papa” e quelle parole resteranno lì
per sempre, su quelle pareti, su questo mio cuore”.
Ma il suo buon amico gli porse un bicchierino di liquore,
versandolo in un bicchiere preso da una madia impolverata.
I due sedettero allora in silenzio, ciascuno immerso nei
propri pensieri. Poco lontano scorreva il fiume, del tutto ignaro di quei
morti, di quei vivi, di quei Papi, di quei mendicanti e mai come in quel
momento Sebastiano sperò, nel più profondo dell’animo, che esistesse davvero un
Dio pietoso che tutto potesse perdonare. Si afferrò a quell’idea e prese a
piangere in silenzio e quel pianto fu la più autentica preghiera che mai
quell’anima sensibile elevò al cielo.
Benvenuto, frattanto, tra un sorso e l’altro di liquore, si
era addormentato, la sua lunga figura s’era distesa sulle tavole di legno del
pavimento. Nel camino la legna andava consumandosi senza fretta e c’era un bel
tepore nella stanza.
VII.
Sebastiano, destatosi da quel momento di solitaria
commozione, proseguì nell’arduo compito di mettere ordine tra le sue cose.
Molti progetti si erano accumulati nei mesi precedenti
l’invasione ed ora egli contemplava quelle cartelle piene zeppe di disegni e lo
colpì il fatto che lavori ormai completati, finiti ad abbellire chiese e
palazzi, ritratti di gentildonne, patrizi e prelati giacevano mescolati alla
rinfusa assieme a committenze che erano ancora da principiare.
Riguardando quelle pile di carta provò come una fitta
dolorosa e si sentì d’un tratto più vecchio e più stanco al pensiero d’aver
doppiato ormai da tempo quel mezzo del
cammin di nostra vita.
Ma un volto, fra i tanti disegni che andava sfogliando, lo
colpì più di tutti, quello per la Maddalena che appariva nella grande pala per
la chiesa di San Giovanni Crisostomo a Venezia.
Cecilia… quanto aveva amato quella modella quando, quasi
venti anni prima, s’era trovato alle prese con quell’opera. Per quella dolce fanciulla
aveva riservato una prospettiva particolare, unica figura di quel gruppo di
santi con lo sguardo rivolto allo spettatore.
Sebastiano sedette su uno sgabello reggendo il disegno tra
le mani. Come avrebbe voluto, in quel preciso momento, accarezzare di nuovo quel
volto, riprendere a corteggiare quella fanciulla.
Ma egli era, a quel tempo, ancora così giovane e inesperto e
il suo futuro tanto incerto e quando seppe che ella andava in sposa a un
Procuratore di San Marco non provò quasi rancore, ragionando che quell’uomo
poteva offrirle ben altre sicurezze.
In cuor suo si avvide, guardandosi indietro, e lo comprese
solo in quel momento, quanto quella delusione d’amore avesse influenzato la sua
decisione di lasciare Venezia per scendere a Roma.
Sì, il ricco Agostino Chigi, sì quella promessa di avere sempre
il vento in poppa, quelle aspettative, quegli incarichi, quei successi.
Sebastiano chiudeva gli occhi e ripensava a quei momenti di
intimità, quando la modella posava per lui tenendo nella mano quel recipiente
col quale Maria di Magdala, la santa rappresentata, aveva profumato i piedi del
Signore.
Un ricciolo le ricadeva sensuale sulla guancia e l’altra
mano era rivolta verso il proprio ventre, come a indicare sé stessa.
Ma quel tempo era ormai lontano e un’altra vita si era
dipanata da allora e quella vita, come dopo un lungo inverno, andava riprendendo
forze ed energie.
Con su sospiro continuò a sfogliare i disegni ed ecco che
arrivò agli schizzi che gli aveva fatto pervenire da Firenze, appena prima che
si scatenasse quell’apocalisse, il Buonarroti.
Prese a seguire quelle linee e subito gli tornò alla mente quel
suo geniale amico e maestro che sembrava, con la perfezione delle opere sue,
contendere agli dei stessi l’immortalità.
E allora, sospirando, comprese che non vi era che questa
risoluzione: di rimettersi al più presto di buona lena al lavoro.
Scritto tra Roma, Venezia
ed altri luoghi ancora, 2019-2020
Note
Dopo i drammatici mesi descritti in queste pagine (*)Sebastiano Luciani fu chiamato a nuovi incarichi da Clemente VII. Il Pontefice
gli garantì una relativa sicurezza economica affidandogli la carica di piombatore
pontificio, ossia di guardasigilli delle bolle e delle lettere apostoliche.
Ecco che egli divenne, per tutti, Sebastiano Del Piombo.
Su questa carica il Nostro scriverà all’amico Pietro
Aretino, nel dicembre 1531 “E viva papa
Clemente! E dite al Sansovino che a Roma si pesca offizi, piombi, cappelli (**) ed altre cose, come voi sapete; ma a Venezia si pesca anguille e menole e
masenette; però con sopportazione della patria mia, io non dico per dir male
della patria, ma per ricordar le cose di Roma al nostro Sansovino, quale voi ed
egli insieme, lo sapete meglio di me; e al nostro carissimo compar Tiziano vi
degnerete raccomandarmi fratescamente, e a tutti gli amici e a Giulio nostro
musico (…)”.
Nel 1531 scrisse a Michelangelo che “io mi son ridotto a tanto che potria ruinar l'universo che non me ne
curo e me ne rido d'ogni cossa (…). Ancora non mi par esser quel Bastiano che
io era inanti al Sacco: non posso tornar in cervello ancora”.
Il Papa impose, però, all’artista di indossare la tonaca di
frate. “Se me vedessi frate” scriverà
ancora a Michelangelo, “credo certo ve la
rideresti. Io sono il più bel fratazo di Roma. Cossa in vero non credo pensai
mai”.
Il giudizio del Vasari su Sebastiano Veniziano è articolato. Di certo non si spreca in
lusinghe quando afferma che “la
promozione sola liberalità e magnificenzia di quel famosissimo principe, a chi
serviva Sebastiano Veneziano eccellentissimo pittore, remunerandolo troppo
altamente, fu cagione che di sollecito et industrioso diventasse infingardo e
negligentissimo”.
Ma poche righe dopo afferma che “mentre durò la gara della arte fra lui e Raffaello da Urbino, si
affaticò di continuo per non essere tenuto inferiore in quella arte, nella
quale cozzava di pari”.
Certo è che dopo la scomparsa del geniale urbinate sulla scena
romana Sebastiano rimase il miglior ritrattista e anche tanto altro.
Personalmente non credo che il veneziano abbia nulla da
invidiare a un Albrecht Dürer, ma forse a taluni questa affermazione sembrerà
azzardata o perfino assurda.
Certo è che il suo ultimo periodo di vita fu caratterizzato
da una rallentata produzione e da un sincero tormento spirituale. Egli chiese,
nelle sue ultime volontà, di esser sepolto presso Santa Maria Maggiore “senza eccessiva pompa”.
Morì nell’anno 1547 nella sua abitazione studio nei pressi
di Santa Maria del Popolo e in quella chiesa venne sepolto.
Mi sono provato, vistando quell’edificio che tanti
capolavori contiene, tra cui, presso la Cappella Chigi, la “Nascita della
Vergine” dello stesso Sebastiano, a individuare quella sepoltura ma senza
successo.
Doveste riuscirci voi fatemelo sapere.
(*) Il "Sacco"si protrasse dal 6 maggio 1527 al 17 febbraio 1518
(**) Qui Sebastiano si riferisce alle berrette cardinalizie
1 commento:
La narrazione è fluente e la storia avvincente.I personaggi, come in altri della saga, sembrano archetipi junghiani: il vecchio papa, segnato dalla vita, ormai al tramonto, che deve rispondere del suo operato all'Altissimo , il giovane che intraprende una missione, quasi un viaggio iniziatico e salvifico, che lo porta ad una importante crescita interiore, la fanciulla misteriosa e avvenente che compare all'improvviso a stravolgere gli eventi , l'antagonista cinico... sembrano carte dei tarocchi che prendono "vita" nelle luci ed ombre di un misterioso e affascinante Rinascimento...
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