2008/01/15

Lo Schiaccianoci

Lo Schiaccianoci
Balletto di Roma
Regia e Coreografia di Mario Piazza
Teatro Italia 13 gennaio 2008

“Vieni a vedere Lo Schiaccianoci?”
“Cosa” -faccio io- “Danza classica? Ma io mi occupo di jazz, mica di Tchaikovsky!”. Ma il mio amico Maurizio insiste ed eccomi al Teatro Italia, una domenica pomeriggio.
Va riferito che assistetti a questo balletto, per la prima volta, trentacinque anni fa (sigh!) al Teatro dell’Opera, in una versione classica che più classica non si poteva. Quella, per intenderci, che era fedele al racconto di Dumas e che riprendeva –a sua volta- una novella piuttosto cruenta di E.T.A. Hoffmann.

La trama della storia era semplice: una bambina riceve, la sera di Natale, una serie di doni. Tra questi una sorta di marionetta che, nella notte, si anima magicamente e conduce la fanciulla in un mondo magico ma nel contempo inquietante, tra creature note ed ignote che si affrontano e si sfidano fino a scatenare una battaglia campale.
La lettura del regista Mario Piazza, su un libretto riscritto per l’occasione da Riccardo Reim, evidenzia la modernità del racconto, con figure familiari trasformate in mostri, in un susseguirsi senza fine di scambi di campo, dove la lista dei buoni e cattivi si ridefinisce ad ogni scena.
I tentativi del regista di portare la ‘modernità’ attraverso l’utilizzo di televisori, telecomandi – e relative lotte per conquistarli!-, luci psichedeliche ed atmosfere da locale trasgressivo convincono, ma fino ad un certo punto.
L’idea di ‘attualizzare l’angoscia’ è assolutamente encomiabile, ma la trama narrativa finisce per dissolversi del tutto. E questo ‘prodotto fatale’ non so quanto sia coscientemente voluto. Non sarà forse peccato aggiungere caos al caos?.
Indubbiamente con una lettura che accentua chiaroscuri e forti contrasti vengono esaltate le spiccate doti di atleta-ballerino del solista Andrè de la Roche, ed altrettanto potrebbe dirsi per Clara (Azzurra Schiena) e per Fritz (Hector Budlla).
Ma alla fine, pur in una coreografia movimentatissima e, a tratti, schizofrenica, pur con luci e scene che passano dalla rassicurante ‘quasi classicità’ della scena natalizia iniziale al ‘techno-dark’ delle scene successive, la confusione ingenerata nella narrazione ha conseguenze -ahimè- nefaste sulla concentrazione dello spettatore.
Si finisce per godere di singoli momenti, pur ben costruiti, ma si perde di vista l’insieme, il tutto e soprattutto quel momento delicatissimo che è il passaggio dall’infanzia sognante all’adolescenza ben più cosciente dell’amara condizione umana che costituisce, a mio avviso, il punto centrale dell'opera.
Era questo, che si voleva? Ed inoltre: la musica riprodotta da un impianto, come si fa ai giorni d’oggi per praticità e risparmio, può sostituire l’emozione dell’orchestra? Non dimentichiamo che la suite di Tchaikovsky si affermò – a livello planetario- molto prima del balletto. E non a caso: le coreografie che si sono succedute (si pensi a Balanchine) negli anni saranno anche belle ma la musica, la musica -amici miei- è sublime.
Che dire di gemme quali il “valzer dei fiori”, la “danza russa”, la “danza araba” o, tanto per gradire, la “marcia” che segue la scena dell’albero di Natale, ripresa perfino da Emerson Lake and Palmer? Non vorrei che, neppure per un attimo, passassero in secondo piano, oscurate da una pioggia di piroette e “port de bras”. Sarebbe un errore imperdonabile.
questo ed altri articoli di M.L. Faustini su "Paesaggi Sonori"

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