2015/09/28

Rotem Sivan Trio – A New Dance

“A New Dance” è un buon CD, ma se vi attenete alle trionfalistiche recensioni di alcune testate che parlano di Rotem Sivan come di un artista capace di “ridisegnare il concetto di eleganza nel jazz“, rischiate di restare delusi.

Di nuovo non c’è molto, men che meno di dance; è sì apprezzabile una certa eleganza formale nei temi, ma il tutto resta un po’ ingessato, un po’ freddino, come se ci fosse un’inconscia paura di sporcare le note.
Anche temi come il piacevole “Sun & Stars” restano rattrappiti, come se temessero di uscire dal loro alveo. Il trio chitarra basso batteria è, per sua intrinseca natura, leggermente intimista (a meno che non si su incappi in Mike Stern) e non bastano gli effetti applicati su “Angel Eyes” (standard della metà degli anni ’40) per pompare energia ad una musica che resta sempre un po’ esangue.

Intendiamoci: il trio suona bene ma non riesce a giocare a fondo le proprie carte. Bene i temi originali, sempre con questo alone vagamente classicheggiante (vedere “One for Aba”). In “Yam” (in ebraico il nome della divinità del caos primordiale) ci si gode un bel solo di Haggai Cohen Milo al contrabbasso, che suona anche note interessanti in “I Wish You Where Here”.

Per la felicità degli amanti di Monk abbiamo “In Walked Bud”, che il grande Thelonius dedicò al suo amico Powell. Qui si tenta una profonda reinterpretazione del brano (che uno è standard del jazz) ma il risultato non è particolarmente esaltante.

In “Almond Tree” si aggiunge, al trio, la voce di Daniel Washington che porta calore ad un tema malinconico e a tratti struggente; peccato che anche questo spunto non sia sviluppato fino in fondo. In “Fingerprints”, invece, ritroviamo fraseggi methenyani che mancano però del colpo d’ala del geniale chitarrista di Kansas City e di nuovo non si riesce a percepire nulla più di una bella atmosfera.

L’ultimo brano, ancora uno standard, “I Fall In Love Too Easily”, si arricchisce di un’introduzione, al sax tenore, di Oded Tzur. Ma siamo a distanze siderali dall’immensa malinconia con cui Chet Baker riusciva, con quella voce e quella tromba indimenticabili, a dare un ritratto di umana pietà con poche e rarefatte note suonate dal profondo del cuore.

Marco Lorenzo Faustini

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