Sonny Rollins al "Rome Jazz Festival"
Auditorium Parco della Musica
Sala Santa Cecilia
11 novembre 2009
Facciamo subito una dovuta premessa, miei cari lettori: Sonny Rollins (1930) è stata una stella di prima grandezza del jazz moderno e dunque merita di per sé un grandissimo rispetto.
Stiamo parlando, infatti, di un tenor-sax che può vantare, prima come sideman e successivamente come leader, una serie impressionante di successi.
Dalle collaborazioni con Charlie Parker, Miles Davis, Max Roach, Thelonius Monk (può bastare???) a dischi come Saxophone Colossus (1956), Freedom Suite (1958), Horn Culture (1973), Easy Living (1977).
Vi risparmio, per farla breve, lunghe liste di gruppi, di turnee, di progetti, di dischi registrati.
Ma se debbo parlare di quello che stasera ho visto e, peggio, di quello che ho ascoltato, allora il mio giudizio è di tutt'altro tenore (mi si consenta il gioco di parole). Rollins è stato sempre verbale, il suo fraseggio torrenziale, la sua vivacità intellettuale, che lo ha visto coinvolto in tanti stili e in tante formazioni diverse e che ha subìto, nel tempo, molte trasformazioni, non ha però mai perso smalto e vigore.
Ma quello che vedo stasera, sul palco della Sala Santa Cecilia, è un artista che ormai, e da tempo, è prolisso, logorroico e- soprattutto- tanto retorico.
Solo a tratti, accennando temi come "My One and Only Love" oppure "In a Sentimental Mood", riascolto il vecchio leone di un tempo. Tutto il resto è, per chi vi scrive, di una noia mortale. Ed anche la band della quale il nostro Sonny si è circondato non mi convince, tutta presa a far divertire il Grande Vecchio, il quale, a sua volta, tutto preso a far divertire il pubblico, assume degli atteggiamenti che sfiorano il patetico.
Salva un po' la situazione il drumming un po' sopra le righe di Kobie Watkins, qualche idea alla chitarra di Bobby Broom. Da dimenticare un paio di assoli del tipo al basso elettrico. Banale fino allo sconcerto il lavoro alle congas di Victor Y. See Yuen, impegnatissimo a far cingettare i suoi richiami per fringuelli e le sue nacchere. Qualcosa di meglio fa Clifton Anderson al trombone, anche se spesso i suoi spunti improvvisativi subiscono la pressione di Rollins che continua ad intromettersi con frammenti di tema, quasi a ricordare a tutti quale brano stanno eseguendo.
Una particolare nota di demerito va ad un pubblico del tutto acritico, probabilmente venuto ad ascoltare la Veneranda Icona. In certi momenti mancava soltanto il presentatore in parrucchino a spiegare al popolo quanto fosse bravo ed importante quel vecchio signore in camicia rossa, e un pò claudicante, che si agitava sul palco.
No, amici miei, proprio non ci siamo. Non vedo l'ora di tornare a casa; voglio mettere nel mio lettore un CD in cui Sonny Rollins e Max Roach duettavano, acrobaticamente, sul filo del rasoio.
E mi viene di pensare che a volte è perfino meglio un po' di nostalgia del passato che tanto, inutile, presente baccano.
Marco Lorenzo Faustini
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