2006/04/04

Ogni cosa è illuminata - una recensione


Jonathan Safran Foer è un personaggio non del tutto reale, è più che altro uno sguardo, un ammiccamento sul mondo, i grandi occhi resi ancor più grandi dalle lenti di improbabili occhiali. E’ un collezionista di ricordi, tanti piccoli oggetti finiscono nelle bustine dei reperti (come nella serie “CSI Miami”), appesi a una parete sotto la foto del loro legittimo proprietario.
Biglietti d’autobus usati, sassolini, fiori essiccati, perfino una dentiera…

Alla morte della nonna ci sono nuovi pezzi per la collezione: una catenina d’oro con la stella di David, un grillo congelato in una goccia d’ambra, una foto scattata nella lontana Ucraina, col nonno ed una donna, Augustine, che nella foto mostra il grillo appeso a mo’ di monile.

“Torna da lei, trovala, riportale questo, le appartiene” sono le ultime volontà dell’anziana donna. E Jonathan parte, dagli USA, destinazione Odessa, quella della corazzata Potemkin, la lunga scalinata è ancora lì, con qualche McDonald’s in più.

C’è persino un’agenzia, la “Heritage Odessa Tours”, piuttosto scalcinata che offre servizio di accompagnamento in auto, traduzione e ricerca delle radici per ebrei americani in crisi di identità.

E da qui parte il film, racconto picaresco alla ricerca di un luogo che non esiste più, dove i ricordi sono, nel contempo, dolcissimi e dolorosi, l’arancione dei campi di girasole non riesce a illuminare il lato oscuro dei pogrom e dei rastrellamenti delle SS.

Su una traballante Trabant accompagnano Jonathan il giovane Alex, campione di breakdance, col mito degli USA e degli afroamericani di successo, il vecchio nonno –autista e da un po’ non vedente per scelta- , e il cane guida Sammy Davis Jr. Jr. (due volte junior per distinguerlo dal cantante negro -pardon, afroamericano- ebreo). Il viaggio verso una località, ormai cancellata dalle cartine geografiche e dalla storia, può evocare una catena infinita di ricordi, perché il passato torna sempre a galla, nella sua miseria e nella sua grandezza, quasi a dimostrare il detto evangelico “… la verità vi farà liberi…” (Gio 8,32).

E poco a poco il tono del film diviene più drammatico, gli incontri via via più risolutivi; le battute e le gag si fanno più amare, i colori stessi della pellicola si avvolgono in ombre più introverse, in presagi.

Non vi racconto il finale, un po’ cechoviano, un po’ shakespeariano. Vi dico solo che ciascun personaggio, alla termine della storia, è più consapevolmente se stesso, condizione indispensabile per poter almeno tentare di rapportarsi all’altro.

“Ogni cosa è illuminata “ (2005), regia di Liev Schreiber, da un racconto di Jonathan Safran Foer, con Elijah Wood.

foto "Self-portrait with an orange", Marco Lorenzo Faustini, 2004

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