2006/08/10

Della Tassonomia o "classificazione"


Se c’è un bisogno innato nell’essere umano è quello di classificare, di distinguere, di cernere.
Si tratti di conchiglie o di teoremi matematici ci serviamo da sempre di “cassetti logici”, di “raccoglitori”, di “categorie” e “sottocategorie”.

Saremmo tentati di dare a tale attività un valore essenzialmente pratico, come dire che se su uno scaffale mettiamo i libri latini e su un altro quello greci lo facciamo semplicemente per facilitarci la ricerca di un titolo.

Ma, se ci riflettiamo un istante, ci avvediamo che questo bisogno di incasellare la realtà obbedisce, in maniera più profonda, a un meccanismo di difesa che scatta inconsciamente e ci evita che il mondo (cangiante) ci travolga.

Classificare la realtà è una sorta di inconscia terapia antipanico.

Quando parliamo di musica le classificazioni sono senz’altro utili ma, abbastanza spesso, riduttive. Provate a definire la musica di un artisti come Frank Zappa o Miles Davis!

Nel caso della grande macrovoce “Jazz” già i nomi esprimono già una difficoltà intrinseca di classificazione. Il termine “Fusion” è il più emblematico, un genere che definisce la confluenza di diversi generi! Per non parlare di “Salsa” (termine che il mai dimenticato Tito Puente utilizzava solo per intendere “il condimento a base di pomodoro che metto su un bel piatto di pasta”!).

Artisti come Keith Jarrett faticano a farsi incasellare dentro categorie troppo ristrette. Indubbiamente la matrice, la base sul quale si basa il pianismo di Jarrett è il jazz, ma come dimenticare le sue frequenti incursioni nella musica sacra, nella musica barocca, nella musica contemporanea?

Insomma, per concludere questa riflessione direi: classificare è bello ed utile ma attenti a non cadere nell’eccesso!

1 commento:

sdn ha detto...

Credo che le etichette stiano bene sulle bottiglie di vino e meno sull'espressione artistica.

E' vero però che sono utili, almeno per chiarire "cosa non è" l'oggetto su cui sono appiccicate.